Prologo

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Tata è una parola che in Togo viene utilizzata davanti ai nomi femminili, in segno di rispetto nei confronti di una persona che non si conosce. Non è propriamente una parola in Ewe, il dialetto parlato nella zona del Togo in cui questo libro è ambientato, ma una parola francese che significa "Zia".

Nelle pagine di questo libro la troveremo scritta spesso, ma poche volte ha davvero questo significato. Più frequentemente, pronunciata dai bambini della Maison sans Frontières, la parola Tata assume un significato diverso, molto più forte; si trasforma in una parola dal suono dolce, un appiglio, una sicurezza, una goccia d'amore e di affetto che spesso i piccoli protagonisti di queste storie senza confini non hanno potuto trovare nella parola "Maman".

«Tata, Tata!».

Quella voce fine e infantile sembrava la continuazione di un sogno.

«Tata, svegliati!».

Susanna aprì gli occhi quel tanto per scoprire che era giorno, anche se le sembrava di essersi addormentata qualche minuto prima.

«Tata!».

La voce, quella voce, era reale e lei la conosceva molto bene.

«Sì, Séba, che cosa succede?».

Il piccolo Sébastien aveva appena sei anni ed era stato trovato in una polverosa strada della capitale proprio da lei solo due anni prima. Dormiva per terra, avvolto in un lenzuolo logoro, sul ciglio della strada, insieme alla madre e alla sorella maggiore, cacciate di casa dopo la morte del padre. Non ci volle molto tempo per decidere di prenderli entrambi, lui e la sorella Honorine, e portarli lì, dove sarebbero stati sicuramente più felici, curati, nutriti ed educati.

«Tata, Honorine mi ha insultato. Dice che ho gli occhi malati».

Sébastien era solito svegliarla per ragioni molto simili a quella, che per lui erano di una gravità assoluta.

«Séba, non è un insulto. Tu hai davvero gli occhi malati. La tua malattia si chiama congiuntivite cronica».

Susanna non lo sentì più parlare, ma sapeva che era ancora vicino alla porta della sua camera, si alzò e andò ad aprirla. Sébastien era lì, seduto sul piccolo gradino, che la guardava triste e con aria sconsolata..

Non riusciva mai a resistergli. Non sapeva se potesse considerarlo il suo preferito; d'altronde c'erano sedici bambini in quella casa ed erano tutti speciali, ma Sébastien era unico.

Susanna decise di sedersi accanto a lui, ancora avvolta nel suo panno tradizionale, multicolore. Iniziava a fare fresco al mattino, così decise di coprire anche il piccolo Séba; averlo così vicino sarebbe servito sicuramente a confortarlo dal suo dispiacere.

«Vedo che questa cosa ti ha ferito molto, Séba. Dimmi, Honorine te l'ha detto in un modo brutto?».

Lui fece cenno di sì con la testolina senza guardarla, sembrava davvero inconsolabile.

«Beh, allora questo non va bene. Facciamo così, ora chiedo a Honorine se può evitare di farlo ancora, va bene? Ma tu devi farmi un sorriso perché ora sto diventando triste anche io».

Sébastien non era molto convinto, continuò a guardarla con occhi drammatici e sospirò. Era un bravissimo attore ed entrambi ne erano coscienti.

«Non vuoi farmi un sorriso, ho capito. Quindi mi trovo costretta a ...».

Senza terminare la frase Susanna sferrò un attacco di solletico improvviso, sapendo bene che lui avrebbe ceduto e infatti Séba iniziò a urlare divertito: «Tata, Tata!».

La risata di un bambino al mattino era il più bel buongiorno che potesse ricevere.

«Bene, il sorriso l'hai fatto alla fine, quindi ora risolviamo questa brutta storia. Honorine! Honorine!» chiamò Susanna, «Vieni, per favore».

La sorella maggiore di Sébastien si avvicinò adagio, sapendo quel che l'aspettava; sul viso le si leggeva tutta la sua contrarietà.

«Honorine, è vero che hai detto in malo modo a tuo fratello che ha gli occhi malati?».

Nessuna risposta.

«Per favore, Honorine, si sa che Séba ha gli occhi malati, ma non è necessario ricordarglielo ogni volta che ne hai l'occasione, va bene?».

«Sì, Tata».

Non era da lei rispondere da bambina obbediente. Sicuramente fu grazie al fatto che era mattina presto e non aveva ancora caricato tutta la sua arroganza da quindicenne.

Ritornò a lavorare lasciando il fratello e Susanna di nuovo soli. Il piccolo Séba non sembrava molto soddisfatto, ma se ne dimenticò in fretta.

«Tata ho sognato che una tigre entrava qui in casa e che io avevo paura».

«Wow, una tigre! Spero che non succeda mai, altrimenti non sarai l'unico ad avere paura!».

«Io vi proteggerò tutti, ucciderò la tigre così non vi mangerà», disse il bambino.

«Sei sempre molto coraggioso piccolo. Spero che se dovesse mai accadere tu sarai qui a proteggerci e non a scuola».

Siguardarono e si sorrisero. Senza aggiungere altro Séba si alzò, riprese la suascopetta fatta di ramoscelli di palma in mano e andò a terminare il suo lavoro.Ogni mattina ognuno dei bambini aveva un settore del cortile e della casa daspazzare; c'erano giorni in cui andava tutto bene, si collaborava e nessunofaceva il furbo. In altre giornate, invece, qualcuno rimaneva indietro equalcun'altro sporcava il settore del vicino per fargli un dispetto o semplicemente per terminare più in fretta. Quello, per fortuna, era uno dei giorni buoni.

Susanna osservava i bambini concentrati sul loro lavoro, sentendo un moto di fierezza muoversi dentro di lei.

Non si chiedeva mai come avesse fatto a creare tutto quello in soli quattro anni, o come fosse riuscita a prendersi carico di tutti quei bambini da sola.

Non lo sapeva e non riusciva a vedere quell'impresa come la vedeva la gente che seguiva il progetto dell'associazione dall'esterno, ad esempio sui social. Lei ci era dentro praticamente undici mesi l'anno, viveva quella storia in prima persona. Non era una semplice spettatrice, lei era il perno della Maison, la persona che aveva ideato e realizzato tutto; senza di lei quel progetto e quella casa non sarebbero mai esistiti.

Si alzò per andare in bagno. Passò dalla terrazza che collegava i due dormitori. Romain stava spazzando il dormitorio dei maschietti e Casimir era appoggiato al muro, ancora addormentato.

«Coraggio dormiglione!».

Sorridendo Susanna gli scompigliò i capelli, quei capelli neri che per scompigliarsi davvero avrebbero avuto bisogno dell'aiuto di un trattore. Arrivò nei bagni sapendo bene che Blessing era nascosta dietro al muretto per spaventarla; infatti l'aveva intravista qualche minuto prima. Così si preparò e avanzò lentamente, con cautela. Appena fu ad un passo da lei, Blessing uscì imitando un leone.

Tata finse di spaventarsi provocando così la gioia della piccola. Si abbracciarono per poi lasciarsi subito dopo.

Che bel risveglio che aveva ogni giorno, sempre pieno di vita, pieno d'amore! Forse non quando era malata di malaria, o quando veniva svegliata bruscamente a causa di un'urgenza. Rimanevano comunque rari i brutti risvegli e mai una sola volta, da quando viveva lì, Tata si era ritrovata a pensare: «Che pessima giornata!».

È difficile comprendere la Maison sans Frontières se non ci si ha mai messo piede almeno una volta. È difficile immaginarsi una casa piena d'amore e di allegria, di colori e di musica, nascosta nel verde della natura attorno al piccolo villaggio di Kuma-Tsame, sperduto nel bel mezzo del Togo.

Ed è per questo che ora desideriamo raccontare la storia di Susanna e dei suoi bambini.

I dati e i nomi dei bambini e del personale della casa di accoglienza che compaiono in questo libro sono aggiornati all'anno 2016.

Oggi la Maison sans Frontières è cambiata, è cresciuta e continua a ospitare e distribuire aiuti e amore a chi ne ha bisogno.


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