Nelle mani sbagliate

642 79 12
                                    

Entro in ospedale di passo spedito, la mia mente è invasa da pensieri che hanno tutti un'affinità logica, un argomento comune: Billity Kant. Inizio ad essere sempre più sicuro del fatto che se la voglio far soffrire, mi abbasserei ai livelli di quello schifoso, lurido, puttaniere Calum Hood.

Le ante argentee dell'ascensore si aprono e la vista dell'atrio pieno di bambini sorridenti mi incute sicurezza, come un fuoco che si espande dall'ombelico e penetra nelle ossa.
Un bambino con una benda sul l'occhio corre verso di me. Non ricordo il suo nome. Perché non ricordo come si chiama? Fino a poco tempo fa io vivevo per questi bambini!
Il pirata si avvicina e si aggrappa alla mia gamba con un gran sorriso, poi si scolla e mi prende la mano, tirandomi verso l'affollamento di bambini.

«Billy e un suo amico stanno facendo uno spettacolo di marionette!» scoppia a ridere e mi ritrovo a sorridergli nonostante l'inquietudine che sento crescere, che mi manda in panne il cervello.

«Quale...?» Vedo Calum Hood seduto accanto alla mia Billity. Lo vedo accarezzarle la schiena possessivo, far passare una mano sulla sua coscia e poi baciarle la guancia. Mi sento avvampare e so per certo che se non lo prenderò a pugni qui dentro sarà solo per non turbare i bambini.

Mi avvicino a quella scena disgustosa e tocco la spalla di Calum con quanta più delicatezza mi è possibile. Lui si volta e un sorriso viscido si prende gioco della sua faccia ambrata.

«Posso parlarti?» Lui si alza e mi segue nel bagno comune al fondo del corridoio. Non ci va mai nessuno e le luci sono fulminate da talmente tanto tempo che i bambini narrano di un fantasma che vive nel corridoio buio. Un'ottima posto per parlare.

«Che ci fai qua?» Non c'è fermezza nella mia voce, solo voglia di commettere un omicidio.

«Non avresti dovuto intrometterti ieri, ora io mi diverto e tu stai a guardare.» Ride come se la malattia di Billity fosse un gioco, come se i suoi sentimenti fossero un gioco... Anche io, anche io mi sono comportato così, anche se per poco tempo.

«La vuoi solo scopare!» La rabbia è ormai palpabile e gli afferrò il colletto della t-shirt nera, sbattendolo con forza muro del corridoio.

Con uno scossone si libera dalla mia presa e mi spintona nella porta del bagno alle mie spalle. Indietreggio barcollando e lui ne approfitta per farmi lo sgambetto. Cado all'indietro e batto la testa contro il lavandino, poi a terra, contro il pavimento freddo e duro come marmo.
Vorrei svenire, per il dolore alla nuca, ma mi tengo sveglio per sentire le ultime parole di Calum, accovacciato al mio fianco. Sussurra e capisco poco di quel che dice, poi si alza e se ne va, lasciandomi lì a rimuginare su quelle parole senza senso: malattia... gioco... divertente...

Quando mi sveglio, sono ancora sul pavimento bianco e piastrellato del gelido bagno oscuro. Tocco i capelli, appiccicosi e impregnati di poco sangue, il che spiega l'emicrania che mi sta spappolando il cervello. Mi alzo barcollando e il senso di colpa si fa largo nelle mie membra: come ho potuto abbassarmi ai livelli di Calum? Lei imparerà a fidarsi di lui, che ne approfitterà come se non ci fosse un domani. Per lei non c'è, in effetti. Vive sempre la stessa giornata. Sempre la stessa vita.

Barcollo fino da Wendy l'Infermiera nell'atrio vuoto: i bambini stanno riposando durante le corte ore del pomeriggio; tiene in braccio il piccolo Luke, che sonnecchia docile fra le sue maniche. Quando mi vede, prima di notare i capelli sporchi e fare uno sguardo confuso e spaventato, me lo posa fra le braccia. Quel momento dura comunque poco.

«Cosa ti sei fatto?!» urla piano. Quell'urlo che ti penetra dentro ma non lo sente nessuno, come una mamma.

«Sono scivolato in bagno. Fai qualcosa, brucia» mi lamento. È l'unica cosa per cui ho le forze di fare in questo momento, mentre mi si stringe lo stomaco e la lama di un coltello mi trafigge la testa.
Wendy mi fa sedere sulla sua sedia dietro al bancone e comincia a medicarmi.
Cullo un po' il bambino, che sembra cresciuto di anni luce da un momento all'altro. È forte, ha un'espressione serena e gli occhietti tremano appena durante il suo sonno. È più pesante e decisamente più lungo.

«Ecco fatto» annuncia dopo poco. «Torna a casa e lavati i capelli, prendi qualche antidolorifico e torna domani mattina».

Ma non sono d'accordo, resto ancora a lungo, guardando il via vai di genitori preoccupati, ma con lo sguardo fisso sulla porta di Billy. So che non si aprirà e che Wendy ha dato il permesso a Calum di portarla via con sè, ma continuo a sperare di vederla uscire da quella porta, tutta intenta a guardarsi intorno con un sorriso e poi, dopo essersi grattata la nuca pelata, rivolgere a me gli occhioni da cerbiatta e salutarmi oscillando la mano con calore.
Ma non accade. Accade una cosa ben peggiore, quando sento l'ascensore aprirsi e la voce di Calum diffondersi per tutto l'atrio, con una ragazza bianca, con una giacca di pelle ed una gonna addosso e una brutta ferita sul volto e parecchi lividi sulla pelle scoperta. La riconosco a fatica, ma non può essere nient'altro che il corpo inerme di Billity Kant.

NashvilleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora