Dischiudo le palpebre dopo qualche minuto, ancora troppo arzilla per potermi addormentare. In verità, vorrei chiudere la porta a chiave, ma nella serratura non era inserita e nemmeno mi pare di averla vista altrove. Non mi fido di Schneider e non so nemmeno se riuscirò a chiudere occhio stanotte, sapendolo nell'altra stanza.
Giro in tondo, soffermandomi davanti alla finestra che si affaccia sul curatissimo giardino, dove due presunti erbaioli sono intenti a potare le siepi: nel mezzo della campagna polacca, assimilabile alla tundra, spiccano i filari di rose di questo antro paradisiaco, che poco si addicono alla personalità del rosso.
Una bella gabbia la mia, ma pur sempre una gabbia.
«Entro domani ragazzina!» Sbraita l'ufficiale, probabilmente avviatosi già verso la rampa di scale.
«Avevate detto un'ora! Aspettate un attim...» Appena metto un piede fuori dalla stanza, mi imbatto nella mia valigia. Sono in ritardo, ma voglio comunque assicurarmi che ci sia tutto, perciò la trascino dentro la stanza, spalancandola e mettendomi a frugare tra i vestiti.
Ma questo... no, non può essere! Il mio cellulare! Ma come mi è saltato in mente di portarmelo appresso? E le cuffie poi! No, no... non va bene, non va bene per niente!
Chiudo velocemente la porta, sedendomici a ridosso per ostacolare l'eventuale passaggio del colonnello. Due cose, in particolare, mi disturbano: la prima, è che questo è il mio telefono, ma non quello che ricordo, bensì il modello vecchio, uno dei miei primi. La schermata riporta una data diversa da quella in cui mi ero ritrovata il giorno in cui ho incontrato Friederick... segna quella che, a rigor di logica, dovrebbe essere quella odierna: 1 luglio 1942.
Incredibile; a discapito dello sfasamento temporale, non ha riportato alcun danno, tant'è che, pigiando i vari tasti, sembra funzionare tutto.
Il mio entusiasmo frena all'istante, smorzato dalla consapevolezza che, in ogni caso e in assenza di campo per di più, potrei farci ben poco.
Anche se riuscissi a chiamare casa, nessuno mi crederebbe o, perlomeno, sarebbero del tutto impotenti di fronte all'inspiegabile. Sarebbe ancora più straziante dover sentire i lamenti di mia madre all'altro capo del telefono e, qualora venissi sorpresa ad utilizzare un apparecchio tecnologico troppo evoluto, sono sicura che sarei messa sotto torchio, accusata di essere una spia, torturata...
Devo farlo avere a Friederick, prima che lo trovi Schneider, che ugualmente mi ha presa di mira: ho vissuto altri momenti, successivi al duemilaquindici, il che avvalora la tesi che abbia più anni di quanti non ne abbia memoria. Ho mentito a Friederick e dovrò mentire a un uomo che, per le bugie, sembra averne il fiuto. Ringrazio il mio viso d'eterna bambina, che mi ha sempre permesso di apparire più giovane di quanto non sia in realtà.
Confido che riterrebbe anche lui immorale approfittarsi di una ragazzina di quattordici anni, e così spero anche di riuscire a fargli prendere le distanze, almeno per decenza.
Imbosco il cellulare nella tasca interna di una maglia, guardandomi bene dal non mostrarmi nervosa all'atto di spalancare la porta.
«Mi era parso d'aver parlato la tua lingua.» Mi rinfaccia Schneider, facendomi capitolare per lo spavento. Ha un passo leggero quando gli conviene; di certo non mi aspettavo che si parasse davanti a me a tradimento, come uno spettro.
«Chiedo umilmente perdono, signore. Prometto che non accadrà più.» Per terra, senza che mi sia stata offerta neppure la mano per rialzarmi, è evidente che il mio tono sia ironico. Lui mira a incutermi terrore con la divisa scura che si staglia contro la pelle pallida, lo sguardo annoiato e spiovente che si rianima soltanto nell'esalare una minaccia tutt'altro che velata.
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Unsere Schatten - Le nostre ombre
Historical Fiction[EX CANONE INVERSO - BEHIND ENEMY LINES] Estate, 1942. Alle porte di Auschwitz-Birkenau una ragazzina corre a perdifiato, cercando di sfuggire al suo destino. Cade dal suo scranno dorato; non sa nulla del mondo, tanto più dei bui anni quaranta, un...