27. Scontri e confronti

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Un giorno ho letto di un filosofo di tutta stima, che diceva che la base di un buon dialogo è sapersi porre nei panni dell'altra persona. L'empatia era sempre stata una delle mie tante qualità, anche se a tratti era un difetto insormontabile: quante volte avevo affrontato i problemi altrui come se fossero miei, quante volte avevo gioito più per le gioie di altri che delle mie. Eppure le emozioni sono un'altra cosa: il dialogo a volte dovrebbe essere scevro di emozioni, privo di coinvolgimento, scarno di influenze sentimentali.

Spesso mi era capitato di pensare che se fossi stata meno vincolata alle mie sensazioni, avrei potuto dire cose in maniera meno sofferta, avrei potuto gridare la verità senza troppe pretese, avrei potuto e basta. E invece mi ero sempre frenata, piantata in asso sulla terra a ricordarmi che ancora esistevo, ma per modo di dire; a tentare di salvare rapporti, a tentare di salvare persone che mai si erano messe nei miei panni, che mai avevano ricambiato quell'empatia che io avevo donato loro gratuitamente.

David, ad esempio, mi aveva rovinato la vita, o forse probabilmente mi aveva dato modo di cambiarla, non sapevo dirlo con certezza e uno psicologo non era ammissibile per mia madre, perché "i panni sporchi si lavano in famiglia": peccato che noi quel panno non lo avessimo mai lavato, forse volutamente, forse incoscientemente. David era a tutti gli effetti mio padre, ma non lo chiamavo così da tempo.

Lo ricordo, quando da piccola facevo piccoli capricci e lui sollevava lo sguardo dal giornale, infastidito da quella dimostrazione di ingenua infantilità per pietrificarmi con uno sguardo e farmi piombare nel silenzio dei miei giochi solitari: ero sempre stata stregata da lui. Ero la classica bambina con un complesso di Elettra irrisolto, quella che nei cartoni al posto del principe azzurro ci vedeva suo padre, sotto mentite spoglie. Lo amavo, profondamente e sinceramente: lo ammiravo, per il suo instancabile spirito di lavoratore che lo aveva portato ad essere un uomo rispettato e conosciuto; invidiavo mia madre, per avere un uomo così e sognavo, gelosamente, il giorno in cui anche io avrei avuto il mio David.

Ovviamente crescere significa guardare in faccia la realtà, con la differenza che il mio più che un confronto con la verità era stato uno scontro violento, insubordinato, imprevedibile e con dei lasciti indelebili. Dialogare con mio padre mi sarebbe servito, penso. Mi avrebbe aiutato a metabolizzare, assimilare, incanalare; ma mio padre non era mai stato un tipo loquace, alla parola preferiva i fatti, ad un gesto dolce preferiva la lezione di vita amara.

La puzza di bruciato mi ridestò dai miei pensieri, mentre osservavo ancora assorta l'uovo attaccarsi alla padella e riempire la cucina con un odore insopportabile. Levai la padella dai fuochi, per poi guardare fuori dalla finestra, svuotando i polmoni con un sospiro profondo. Non ero mai stata bravissima ai fornelli, ma bruciare il cibo era sul serio da imbranati ai miei occhi, e forse un po' imbranata lo ero. Mi abbandonai contro il bancone della cucina, fissando la padella come se quell'uovo bruciato fosse l'insieme di tutti i fallimenti di quel periodo. Portai la mano destra al mento, e poi più in alto per coprire bocca e naso da quell'odore nauseabondo; aprii la finestra, cercando di liberare l'aria e ringraziando per il venticello leggero a scarcerare i pensieri.

Il telefono prese a squillare prepotentemente, e io voltai appena il viso, quel poco che bastava per rendermi nuovamente conto che lo stessi ignorando da giorni. Avevo troppo confronti che mi premevano addosso e non sapevo da quale iniziare, perché in fondo sapevo di non voler cominciare.

"Ciao sono Ellie, al momento non posso rispondere quindi se è importante lasciate un messaggio dopo il bip" disse la mia voce elettronica, registrata chissà quando, lasciando spazio al suono acustico successivo "Ellie, mi rispondi per favore?" intervenne Delilah, preoccupata fin dentro la voce "sono tre giorni che non ci rispondi, so che è un periodaccio, ma mi stai facendo preoccupare. Harry è-" e si interruppe, catturando, però, la mia attenzione con la semplice menzione di quel nome "lui è qui, vorrebbe solo assicurarsi che tu stia bene. Okay, chiamami o chiama lui, fa lo stesso" concluse riattaccando, mentre io fissavo attonita il telefono.

CANTHARIDE- [H.S. AU]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora