Il drago mi aveva abbandonata sugli scogli nel mezzo della piana di sabbia.Nel fare ritorno alla roccaforte dvergar ero stata costretta ad accelerare il passo per paura che si sollevasse l'alta marea. Una volta arrivata in città ero stata più che intenzionata a dirgliene quattro, ma non l'avevo trovato. Flynn si era volatilizzato, come se fino a quel momento non fosse stato altro che un prodotto della mia mente.
«Tornerà» mi aveva rassicurata Trèinor. «Tiene troppo a voi per abbandonarvi davvero.»
Ma persino nella voce del principe dei dvergar avevo scorto l'ombra del dubbio.
Mi sistemai in una delle celle dedicate alla guarnigione reale, una stanzetta spartana ma accogliente non lontana dall'armeria, quattro mura di pietra che ospitavano un letto, un armadio dove riporre i propri effetti, una rastrelliera e un braciere. Quella notte strinsi a me il cuscino, nella speranza di scacciare il vacuo senso di solitudine che si stava espandendo a macchia d'olio dentro di me.
Scelgo di non vederti morire.
Le ultime parole di Flynn riaffiorarono nell'oblio dell'oscurità, aggrappandosi alla mia coscienza, seguite dai fotogrammi della notte in cui avevamo ballato alla luce delle lampade a gas del Tré. Aprii gli occhi e mi concentrai sui tizzoni inceneriti che ardevano nel caldano di terracotta. Quello fu il momento in cui la consapevolezza mi travolse, con la forza delle onde del Mare Celtico che si schiantavano contro le scogliere: se ne era andato davvero.
Il mattino seguente presi posto a una delle tavolate in legno nella sala comune dei guerrieri. Il chiacchiericcio nervoso e lo sferragliare delle armature erano echi da un altro mondo, mentre rimestavo svogliatamente la mia colazione nella ciotola colma d'avena.
«Hai una pessima cera, umana.»
Sussultai e il cucchiaio mi sfuggì dalle dita, tintinnando contro la superficie del tavolo. Liànthorn era lì, seduto a fianco a me, una gamba elegantemente allungata verso il corridoio fra le due schiere di commensali e l'altra rannicchiata sulla panca.
«Cosa...? Da dove... da dove diavolo sei sbucato?» balbettai.
«Giusto. Non mi rendo conto di quanto i miei movimenti siano silenziosi, certe volte.»
Aggrottai le sopracciglia e spinsi via la ciotola, con indolenza. «Hai bisogno di qualcosa?»
«In effetti sì, io e mia sorella vorremmo farti una domanda.»
Idraèlle sedeva dall'altro lato del tavolo e, sfarfallando le folte ciglia albine, intrecciò le dita fra loro e vi appoggiò sopra il mento.
«Maledizione» scattai, «dovreste proprio piantarla di comparire all'improvviso. Ho un cuore delicato, io».
Liànthorn tamburellò le dita contro il tavolo, quasi stesse cercando di ingerire il turbine di ingiurie che si stava agitando nella sua bocca, e lo soppresse distendendo le labbra in un sorriso. «Hai davvero intenzione di partire?»
«Sentite, se siete qui per dirmi che secondo voi è una pessima idea, sappiate che...»
«Oh, Beatrice!» proruppe Idraèlle con un cinguettio. «Assolutamente no! Tu devi partire. Vedo qualcosa, su di te, e se anche si tratta di immagini poco chiare, so per certo che avrai un ruolo, in tutto questo.»
Deglutii e mi sporsi verso di lei. «Hai una profezia per me?»
Idraèlle si abbandonò a una risata così acuta e sincera da destare l'attenzione degli altri dvergar. Quando decise di avermi umiliata abbastanza, si asciugò le lacrime: «Cielo, no! Profezie, ma che sciocchezze».
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BAZAL'TGOROD | Città di basalto (Vol. I)
FantasyCOMPLETA | Irlanda del sud, 1953. È il culmine della notte di Lammas quando Beatrice decide di mangiare le primule, "i fiori che rendono visibile l'invisibile". Lanciatasi all'inseguimento di uno Spriggan, un turbine di fate la conduce alle porte de...