«Diciamo che l'ora della morte è incerta; ma, quando lo diciamo, immaginiamo quell'ora in un futuro vago e lontano. Non pensiamo che abbia qualcosa a che vedere con la giornata che stiamo vivendo o che la morte possa arrivare in questo stesso pomeriggio che ci appare così certo, che ha ogni ora già stabilita e programmata».
Così scrive Proust nel suo poderoso Alla ricerca del tempo perduto; quel libro di cinquemila cartelle che nessuno ha mai avuto la forza di leggere, neppure l'editore che lo pubblicò. Infatti, lo pubblicò soltanto perché tutti ne parlavano, e tutti ne parlavano proprio perché era un mattone di migliaia di pagine impossibile da leggere. No, nemmeno io l'ho mai letto: avrei dovuto cominciare da giovane per avere una possibilità di finirlo, ormai non mi restano abbastanza giorni da vivere per andare alla ricerca del tempo perduto. C'è una soglia critica, un'età di là dalla quale il tempo perduto resta perduto.
Dunque di un libro che nessuno legge, cosa resta? Le citazioni, si capisce. Questa qui sopra è una delle più famose e utilizzate. Sdoganata dagli oratori funebri, per evocare l'imprevedibilità del momento del trapasso. La frase è citata anche nella Grande Bellezza di Sorrentino, quando il giovane Andrea è depresso e spaventato:
«Proust scrive che la morte potrebbe coglierci oggi pomeriggio. Mette paura, Proust. Non domani, non fra un anno, ma questo stesso pomeriggio!»
Di fronte a cotanta tragica angoscia, uno scanzonato Jep Gambardella risponde: «Vabbè tanto ormai è sera, domani pomeriggio se ne riparla».
E nel film, ovviamente, il ragazzo morirà la sera stessa; non l'indomani, non dopo un anno, ma quella stessa notte. Colpisce però la filosofia del napoletano che, invece di angosciarsi per il tempo perduto, è convinto che perdere il tempo sia il miglior uso che se ne possa fare. Il tempo, lui lo perde continuamente, senza mai darsi pena a cercarlo, e se ne frega della morte: quando arriva, arriva.
Pure Salvatore era napoletano. Di fronte a qualunque evento, felice o triste, lui si poneva così: «Come lo vuoi? Tutto insieme o un poco per volta?»
Eh già, perché pure la morte si può manifestare un poco per volta; la puoi sentire arrivare da lontano, con una lunga malattia; la puoi vedere camminare accanto alla persona cara mentre si spegne lentamente, ogni giorno più debole. Il dolore che ti spetta è lo stesso; solo che, invece di riceverlo "tutto insieme", lo prendi "un poco per volta". Salvatore aveva enunciato così quello che io chiamo principio di conservazione della quantità di dolore. Poi c'è l'analogo principio pure per la conservazione della quantità di gioia.
Salvatore aveva una figlia che lo amava moltissimo. Barbara idolatrava suo padre; papà era il suo eroe, ogni mattina gli chiedeva: «Papà, sono bella? E dai, dimmi che sono bella!»
Il padre non glielo diceva mai, che era bella. Rispondeva affettuosamente «no, sei brutta!» o qualche altro scherzo; più dolce così, che con una sdolcinatezza esplicita, era il suo modo di dirle quanto bene le volesse. Era anche una scelta, la scelta di giocarsela "un poco per volta". E funzionava, eccome se funzionava. La figlioletta crebbe con il mito del papà.
Poi, una mattina, Salvatore rispose a sua figlia: «Sì, sei bella!»
Più tardi, nel primo pomeriggio, la morte lo raggiunse con un infarto fulminante. Non l'indomani, non un anno dopo, ma quello stesso pomeriggio.
Non l'ho mai conosciuto, Salvatore. Questa storia me la riferiva la figlia, con lacrime di commozione, come la leggenda del padre uscito di scena proprio il giorno in cui le aveva fatto il primo complimento. Gran bella mossa, andarsene nel momento di massimo splendore, come James Dean. Io ascoltavo con avidità quell'emozione così forte. Ascoltavo con invidia, anche; il dolore della morte di un genitore spetta a tutti noi in egual misura, per diritto di nascita; lei l'aveva ricevuto "tutto insieme" mentre a me toccava "un poco per volta", nella convivenza decennale con i tanti pomeriggi di mio padre, ciascuno dei quali potrebbe essere l'ultimo.
Ragazza fortunata, questa Barbara, e mi piaceva. E non c'è da stupirsi che anche io piacessi a lei, perché ero di tanti anni più grande e perché ogni giorno le dicevo: «Sei bella...»
E lei puntualmente ribatteva «...come il culo della padella!»
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Il culo della padella
General FictionDi come scoprii per caso il principio di conservazione della quantità di emozioni.