Linea Suicidi, L. A.

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Linea Suicidi, L.A.

 
Spalancai la porta di uno dei bar più malfamati di L.A. sperando di farla finita una volta per tutte. «Eccomi, cazzoni!» gridai.

  Venni accolto dalle urla, fischia, applausi degli avventori:

  «Ma allora sei vivo, maledetto figlio di puttana!»

  «La bevuta di ieri non ti è bastata? Finirai sotto terra, ragazzo mio, vedrai…»

  «Chi non muore si rivede…»

  Benché volessi morire, ero ancora più vivo di tutti di loro. Visi stupendi, visi orrendi, occhi ebbri, ma tutti privi di luce – neanche una scintilla crepitava nelle loro anime, o in quel poco che ne rimaneva.

  Mi sedetti al bancone, solito sgabello, solito posto, solito delirio. Volevo morire, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era ubriacarmi. «Non sarà certo un cazzo di bicchiere ad uccidermi!» dissi, incitando le urla degli avventori. «Teddy, fammi il solito».

  La solita morte liquida, veleno potabile in un cilindro di vetro.  

  Scolai il bicchiere, qualcosa dentro di me si spense, e lo feci scivolare lungo il bancone, verso Teddy. «Un altro».

  «Se continui di questo passo finirai per ucciderti lentamente», mi avvertì Teddy, ma ciononostante riempì il bicchiere per il secondo round. Gli affari erano affari.

  «Allora mi toccherà aumentare il ritmo, ho fretta».

  Scolai il secondo bicchiere mentre altrove, in un letto d’ospedale, un figlio di puttana qualunque combatteva come un dannato per la propria vita, intubato e dolorante. Domattina io mi sarei svegliato con brividi, conati di vomito e l’erezione mattutina; lui avrebbe continuato a dormire e a soffrire, oppure, nei migliori di casi, sarebbe crepato.

  Dopo il terzo bicchiere qualcosa di simile all’empatia si impossessò di me e mi ricordai che gli esseri umani erano dotati del dono più grande e dell’arma più micidiale: la parola.

  «Teddy, ehi, ehi, vieni qua», richiamai l’attenzione del barista, impegnato a lavare i bicchieri o in qualche altra attività che ti prosciugava da dentro. Si sedette al lato opposto del bancone, di fronte a me, e si fece un 7UP. Aveva capito come girava il mondo: un uomo silenzioso dopo essersi calato qualche cocktail diventa una mitragliatrice di palle, e le spara a raffica senza fermarsi – finché il suo portafogli non diventa più leggero del peso che si porta appresso perennemente.

  «Sai cosa mi diceva la mia insegnante di scrittura creativa delle superiori?» domandai   a Teddy. Povero diavolo, quante ne doveva sopportare.

  «No, Bates, non ho la più pallida idea di cosa ti dicesse la tua insegnante», disse, e il mio bicchiere tornò pieno. Come dicevo, Teddy aveva capito come girava il mondo.

  Accesi una Lucky Strike, dieci milligrammi di catrame e ancora nessun tumore; soltanto colpi di tosse, di notte, come se i miei demoni personali non fossero già bastanza. Aspirai il fumo. «Diceva che ero un fallito», sputai, «un fallito senza speranza. Non avrei mai scritto un romanzo, e il massimo a cui avrei potuto aspirare era scrivere la lista della spesa. Oggi, però, a distanza di quattordici anni posso finalmente dire che…»

  «Lasciami indovinare: hai scritto un libro».

  Risi. «No, certo che no! Però posso finalmente dire che, oggi, a distanza di quattordici anni, quella stronza è schiattata. L’ho letto sul Times stamattina». Alzai il bicchiere al cielo. «A Dio, e ai suoi miracoli».

  Teddy alzò il suo 7UP. «A Dio, e ai suoi miracoli».

 ***

Ero nella mia camera di motel, al riparo da cattolici e repubblicani, e la cornetta del telefono squillava a vuoto – avevo composto un numero che si chiama solo quando si è sull’orlo del baratro. Mentre aspettavo che qualcuno mi salvasse dal vuoto – a Los Angeles c’erano così tante anime in pena e nessun angelo – estrassi un cucchiaio da un cassetto, lo riempii d’acqua tiepida e ci versai dentro della polvere; accesi un accendino a gas e lasciai che la fiammella danzasse sulla parte ricurva del cucchiaio, sciogliendo il suo contenuto. Drenai il liquido ottenuto all’interno di una siringa e la China White era pronta per fare l’amore col mio sangue.

  L’ago della siringa baciò una mia vena e trenta dollari di ero fluirono in me.

  «Linea suicidi di Los Angeles, sono Tanya».

  Troppo tardi.

  «Tanya, eh? Io sono T. Bates»

  «Bates, che cosa succede?»

  «La mia vita sta andando a puttane, giorno dopo giorno, ecco cosa succede».

  «Bates, hai bevuto?»

  «Mmmh, sì, piccola… Ma continua a parlare, ti prego».

  La sua voce era il connubio perfetto tra innocenza e sensualità, era come fare sesso telefonico con una vergine.

«Vorrei che mi spiegassi perché credi che la tua vita stia andando a rotoli».

  Abbassai i pantaloni e infilai una mano nelle mutande. «Questa è una bella domanda, mia cara Tanya. Resta in linea per piacere…». Raccolsi un fazzoletto dal pavimento e lo posai sulla scrivania in modo che fosse a portata di mano. Presi a menarmelo.

  «Presumo che abbia ascoltato molte storie simili, quindi spero di non annoiarti. C’è una donna che mi sta facendo andare completamente fuori di testa. Non la capisco, è pazza, e di donne pazze ne ho conosciute molte. Ma Sophie è anche intelligente, sexy, spiritosa, suona il pianoforte con la stessa delicatezza di Tchaikovsky ed è la migliore scopata di Los Angeles – senza offesa».

  «Ti rende felice questa donna, Bates?»

  «In questo momento? No. Altrimenti non ti avrei chiamato».

  «La ami?»

  «No, la odio. Ma per qualche assurda ragione sono convinto che sia la anima gemella».

  «Ti capisco, ci sono passata anch’io. È l’amore».

  «L’amore è un cane che viene dall’inferno».

  «…»

  «…»

  «Oddio, ti stai… toccando!?»

  «Perché, tu no?»

  Riagganciò, il cazzo non voleva saperne di indurirsi e l’eroina mi teneva compagnia...

 ***

  La morte non sopraggiunge mai quando viene invocata, non importa che ti trovi nel migliore o peggiore bar di L.A.. La morte si fa cercare e desiderare, come Sophie.

  La morte si può trovare nei vicoli di South Central se si è sfortunati, a Beverly Hills se si è stupidi. In un letto di ospedale se si è una delle due cose.

  Se ti affacci da un parapetto del Golden Gate Bridge e guardi in basso, invece, puoi scrutare la morte nei suoi occhi, le pupille che riflettono lo stesso vuoto che ti divora da dentro – pezzo dopo pezzo, un lembo di pelle alla volta.

  E la China White scorreva…

  Mi lasciai cadere nel vuoto, e il tizio che diceva che Dio si trova tra un ponte e l’acqua aveva dannatamente ragione.

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A/N: questo racconto, a dire il vero, l'ho scritto tre mesi fa, in piena crisi Covid, ma ho deciso di pubblicarlo in data postuma perché... Be', tre mesi fa il mondo era abbastanza oscuro anche senza i miei racconti.
A proposito, stavolta mi sono autoplagiato: la parte centrale l'ho ripescata dal mio romanzo Finché Piove e rielaborata - sentivo che non aveva raggiunto il suo massimo potenziale - e per il resto, mi sono ispirato alla poesia The Suicide Kid/Drunk Again di Bukowski (ma che sorpresa!) e a un periodo non esattamente piacevole della mia vita.
Bye bye

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