Dicono che sia

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"Dicono di me
Che sono un bastardo, bugiardo e lo fanno senza un perché
[...]
Dicono di me
Che sono un serpente con ali da diavolo e un cuore da re
Ecco perché, nessuno sa..."

I

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I


«𝓓icono che sia bellissimo...»

Il vento mi intirizziva la pelle, biascicava tra i vestiti avvolgendomi in un tremore costante.

Ma quella voce... quelle parole mi fecero fremere.

Le sentii, non potei fare a meno di sentirle, perché quella ragazza le pronunciò nel momento esatto in cui le passai di fianco.

Il suo tono mi pizzicò timpani e scorci di carne; fu un suono che mi si invischiò dentro sporcandomi di... fastidio. Secco e puro fastidio.

Non ebbi bisogno di gettarle uno sguardo per capire che stava confabulando con le amiche, né ebbi bisogno di affinare l'udito per sentirle tutte ridacchiare come uno stuolo d'oche.

«Gesù.» borbottai, gli occhi ad alzarsi al cielo nella speranza che questo potesse farmi scivolare indosso un po' di quella pace candida di cui era rivestito quel mattino.

Strinsi i libri contro il petto, le braccia un po' infiacchite dal peso, e aumentai il passo nel bisogno di non sentirle più.

Mi maledissi per la milionesima volta in dieci minuti di aver dimenticato le cuffiette a casa.
Non mi era mai successo, mai in un anno intero.

Era tradizione che percorressi il tragitto a piedi da casa all'università. Amavo la brezza mattutina: quel sole che lascia baci timidi sulla pelle coi suoi raggi ancora pallidi, la sensazione di frescura tra i vestiti. Ma tutto diventava più piacevole con la musica... con la musica mi perdevo in me stessa, in quelle parti di me che sbucavano fuori solo quando c'era lei.

E si facevano baciare dal sole o ferire dalla pioggia, carezzare dal vento o bruciare dall'umidità... non importava. In quei dieci minuiti di passeggiata, con la musica nelle orecchie, era come tirare insieme ogni parte di me stessa per dare il buongiorno al mondo, così come lui lo dava a me.

Per cui... come avevo fatto? Come avevo potuto proprio quella mattina dimenticare le mie cuffie?

Strinsi uno sbruffo tra le labbra, lo feci riscendere in gola in un respiro più profondo. Il vento mi spinse i capelli in avanti come se anche lui mi incitasse a proseguire.

E allora io obbedii... proseguii. Mi avvicinai a passo sempre più celere al cancello d'entrata della mia facoltà, la suola a battere contro i ciottoli con un po' troppa veemenza.

Io però non me ne curai in quel moto di fretta che mi pervadeva, perché la verità era che io... non volevo sapere niente di lui. Non volevo che mi sporcasse neanche l'orlo di un pensiero, non volevo sentire il suo nome soffiato sui timpani, non volevo sapere quando sarebbe arrivato o se fosse già lì, io non volevo neanche ricordarmelo.

Tu sei la mia legge di KepleroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora