18. die Sense des Todes - la falce della morte

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Avrebbero voluto che io scegliessi un abito stretto sui fianchi, che si adattasse al mio corpo come se dovessi essere io la portata da servire in tavola, e invece devo deluderli. Mi era stato comprato un unico vestito del taglio che si sarebbero aspettati da me ed è rimasto appeso alla stampella, nello scompartimento dell'armadio che non apro mai e che ha un odore stantio, quasi di muffa.

Elegante.

La mia concezione di "elegante" è questa: camicia bianca inamidata e pantaloni scuri a contrasto. Mi duole dovergli dire che dovranno accontentarsi... no, in realtà neanche un po'. Ne sono orgogliosa.

Mi presento da Attila vestita da impiegata d'ufficio, abbottonandomi i polsini. Lui ha voluto rispettare i patti invece, e tutto impettito sfoggia un completo scuro e fine, anche troppo pesante per la stagione.

Non esito a farglielo notare.

«È anche per questo motivo che ho deciso di spuntarli. Avresti dovuto vederli prima...» Mi risponde, sornione, passandosi una mano su ciò che dovevano esser stati i suoi capelli. «Tu invece? Primo giorno da dattilografa?» Accartoccio le labbra per riflesso, affrettandomi a far valere la mia tesi.

«Il nero attira i raggi solari. Rimpiangerai di non aver optato per un altro colore.» Scosto un'onda morbida dal viso - vispa, vispissima - e mi avvio verso la porta d'ingresso, presto raggiunta da lui.

Ci palesiamo nel luogo prestabilito con cinque minuti di ritardo - che noi credevamo essere di anticipo - e subito uno degli ospiti tedeschi ce lo sbatte davanti al viso, additandolo come tipico comportamento italiano.

Nessun convenevole a precederlo, soltanto un misero "Buon giorno".

Che io sia una ragazza impaziente è opinione comune; meno comune è stato il sorriso mendace di Attila, seguito da un gorgoglio di fastidio. Anche lui li vede come invasori; la cadenza nordica è un male che vorrebbe estirpare da Roma quanto dall'Italia. Ha strizzato gli occhi, infastidito, come se gli avessero conficcato due spilli nella sclera. 

Un fastidio dovuto, rimpastato secondo le cifre riportate sui bollettini di guerra. Un'alleanza che reputa sconveniente e dai risvolti tragici, già da ora, essendo obbligato a condividere la sua città d'adozione con gli altezzosi invasori.

Ci addentriamo all'interno di una proprietà dal giardino sontuoso, un'oasi felice, dove la villa emerge dalla vegetazione come un fiore inaspettato, un bocciolo tra le querce ma, allo stesso tempo, retroscena di un tesoro dal valore inestimabile, ancora più invitante per i predoni nazisti. L'acquedotto romano, inglobato nel perimetro, attraversa il giardino, offrendogli qualcosa da fotografare oltre che ammirare.

Me ne sono accorta giusto in tempo, evitando di venir immortalata da un omino basso e moro, cieco come una talpa a giudicare dallo spessore degli occhiali da vista, issati buffamente alla radice del naso.

Il palmo di Attila sulla spalla mi riporta alla realtà che devo condividere con Rüdiger, tutt'altro che idilliaca. Il mio sguardo cade sulle sue dita, avvolte attorno al braccio scurito dal Sole, in linea con la carnagione mediterranea che si colora e decolora a seconda degli sghiribizzi di stagione. Gli erano scivolate in basso, ma io non avevo aguzzato la vista tanto da comprendere che cosa lo avesse spinto a farlo: i sensi, avviliti dal risultato delle mie arguzie, mi avevano ormai abbandonata e l'ombra del colonnello era sgusciata tra le siepi, prima che mi fosse possibile avvistare l'inconfondibile zazzera di ciuffi rossi.

«Dobbiamo» mi dice, carezzandomi il braccio sospeso, «dobbiamo entrare.»

È facile per lui, che non ha niente da temere.

Unsere Schatten - Le nostre ombreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora