Tempesta

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«E adesso che cosa vorreste fare?» chiese Ana, dopo qualche minuto di trance.

E lo chiese proprio a me, l'unica storpia rimasta in plancia. Troppo zoppa per voltare le spalle come avevano appena fatto Ray e August, caricando il cadavere di Stefano per buttarlo in mare.

«Ammutinarvi?»




Avevamo perso tutto il carburante credendo che la nave si stesse muovendo, e non solo. La morte di Mateo, Jalendu, Rui, Babatunde... era stata perfettamente inutile, così come le ferite di Irina, mie e del vice.

Desideravo davvero di mettere fine in qualche modo a quel patibolo lento, progressivo.

Gli altri non erano dello stesso parere, evidentemente, perché quella sera arrostimmo il poco pesce che Ray era riuscito a tirare su e ci forzammo a mangiare.

Dopo un po', mi sentii in dovere di portare la cena a Irina, dato che nessuno sembrava volerla anche solo nominare. Mi diressi con una sola stampella verso la cabina, con l'altra mano reggevo in modo abbastanza instabile il triste piatto di pesce, mentre la mia ombra si trascinava lungo le pareti come quella di un mostro, uno spirito vagabondo e terrificante. Quando varcai la soglia non seppi come feci a non riversare il piatto a terra. Avrei preferito che fosse morta, piuttosto che vederla in quelle condizioni.

Lentamente, lasciai la cena sul comodino. Irina non avrebbe potuto prenderla, non senza mani. La turbina le aveva amputato di netto entrambi gli arti, appena sotto il gomito.

La bambina era distesa prona, dormiva sotto pesanti sedativi, mentre le bende che stringevano i resti delle sue braccia continuavano a sanguinare, insozzando progressivamente le lenzuola. Mi chiesi secondo quale legge della fisica August fosse riuscito a frenare parzialmente quell'oscena emorragia, quella promessa di morte lenta e dolorosa.

C'era una sedia vicino al suo letto, mi sedetti e mi presi la testa fra le mani. I miei capelli spenti ricaddero lunghi verso le ginocchia, oscillando come vele stracciate di un relitto. Non saprei dire per quanto tempo restai così, senza domande, senza risposte, nel silenzio di quell'innocente.

Che cosa rimaneva? Che cosa potevo vedere di peggio?

Mi spostai nei servizi igienici lì accanto e vomitai tutto, forse anche il mio fegato a pezzi. Tremante, fu lì che decisi di passare per la cabina del vice comandante e darmi il colpo di grazia.

Trovai Ulrika più simile a un ammasso di bende mummificate, che a una persona.

Mi avvicinai con l'orrore negli occhi, notando come l'ustione da alta tensione le avesse sciolto più di metà volto, infliggendo alla donna – oltre al dolore e alla perdita – anche il digiuno. Non poteva aprire le labbra senza strappare brandelli di carne viva e fusa. Sembrava una bambola di cera, con la faccia lasciata contro lo stoppino acceso di una candela.

Era mostruosa, sì, ma dopo tutto quello che avevo visto quello era forse il male minore.

Dopo qualche secondo dal mio ingresso, lei mi guardò con l'unico occhio rimasto.

«Durante. Non è andata come speravamo, eh» biascicò a denti stretti, col tono di chi fosse bloccato in un trauma tale da non realizzare davvero.

Rimasi impalata a fissarla, sfacciata, non m'importava di farla sentire a disagio. Ulrika parlò, rompendo il ghiaccio solo per crearne dell'altro: «L'ho saputo, dell'ancora. È il capitano che ha architettato tutto quanto»

«Che cosa?» esalai, dal profondo del baratro dove ero già caduta da un po'. «A che pro? Non ha senso!»

«Ana...» sussurrò la corvina, a denti stretti, fissando un punto indefinito dello spazio «per qualche tempo ha lavorato come consulente di un'azienda di psicofarmaci. Quando venne a galla che la suddetta era una multinazionale con al vertice sperimentazioni su esseri umani chiusero baracca e burattini»

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