Camioncino

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- Cazzo com'è tardi! Grido parlando da solo. Mi allaccio la cinta e poi chiudo i bottoni dei polsini della camicia. Denti lavati e faccia sciacquata ma mi sento ancora sporco.
"Questa volta il capo reparto s'incazza davvero", penso mentre mi fiondo per le scale sbattendo la porta alle mie spalle.
Prima rampa, mi tengo saldamente al corrimano con la mano destra poi reggendomi forte giro di centottanta gradi per affrontare la seconda rampa, quella che mi porta al piano inferiore e, non mi sbagliavo, avevo sentito un antipatico vociare e le voci ora, sotto di me prendono irrimediabilmente corpo.
La famiglia Tappi, "quelli di sotto" come li chiamo io, totalmente riunita di fronte alla piccola porta celeste dell'ascensore. Padre, madre tre figli, in realtà due femmine e un maschio e nonna, tutti sparpagliati fra il pianerottolo e le scale, ognuno con qualcosa in mano.
- Buongiorno! Grido. È un saluto convenzionale che suona però come un "Teste di cazzo, permesso, fatemi passare che ho fretta!"
Al saluto risponde solo la nonna, una rubiconda gallina col cappellino blu poggiato su  una cresta di corti capelli bianchi sempre cotonati. Si gira e la catenella d'oro degli occhiali dondola come fossero proprio i bargigli ai lati del becco di un pollastro.
- Buongiorno! Chioccia.
Il signor Tappi, un ometto calvo e panciuto è ancora impegnato a girare la chiave nella serratura. Ha poggiato a terra, accanto alla porta due ombrelloni e il frigo per le vivande e sinceramente avrebbe fatto meglio a scegliere un altro posto dal momento che ne è impedito nei movimenti e la difficoltà che trova nel togliere la chiave è paragonabile soltanto a quella di Artú nell'estrazione di Excalibur dalla roccia.
Dietro di lui, la moglie, Loredana, una bellissima signora che non mi spiego come possa aver mai avuto la brillante idea di incrociare il proprio corredo genetico con un "tappo" del genere. Nomen omen, dicevano i latini; "il nome è un presagio" o "il destino di un uomo nel nome" o ancora "di nome e di fatto".
La signora Loredana, dicevo, è una bellissima signora di quarantacinque anni, atletica, solare e spigliata, spesso pronta a sfoderare la sua bellissima dentatura incorniciata da labbra rosse e carnose. Mi da l'impressione di esser sempre fertile e pronta alla congiunzione carnale atta a riprodursi.
Seno generoso, pelle abbronzata senza evidenti smagliature e sul viso quelle piccole rughe che impreziosiscono anziché invecchiare. Gli occhi verdi e scintillanti possiedono una forma felina, selvaggia e curiosa. Saltano a destra e sinistra ma se si fermano fissandoti ti sbranano.
"Ma come cazzo ha fatto a sposarsi con questo nano?" Penso.
Dunque, Loredana sta alle spalle del marito, di schiena, intenta a pulire col dito bagnato della propria saliva il viso del figlio maschio, Carmine detto Uccio, da Carminuccio presumo, poiché Carmine era il nome del nonno, padre del signor tappo. Si lo so, il cognome è Tappi, con la T maiuscola ma io lo chiamo tappo.
Chiamo tappo, anzi tappetto, pure Uccio. A dire il vero chiamo "tappo" solo i maschi di quella famiglia perché i maschi veramente sono tappi e pure bruttini, di contro le femmine, sia la madre di cui abbiamo poc'anzi parlato e le due figlie sono veramente carine. Anzi, belle. Le ragazze hanno ripreso dalla mamma ma non da "nonna cocca" però, che è la madre del tappo.
Hanno lo stesso stampo atletico, belle gambe, bel sedere, bel punto vita e bel seno ma quello che più hanno di bello è il viso.
Come la mamma hanno un viso esotico e tropicale. Una, Luana la più piccola delle due ha gli occhi marroni. Non marrone scuro però ma un marrone chiaro tendente al giallo dorato. L'altra, Mara, ha gli occhi verdi come la madre, la pelle meno olivastra della sorella e un atteggiamento tipico delle adolescenti indisponenti.
Se ne sta sugli scalini, poggiata col gomito sul corrimano, dietro alla nonna. Porta sulle spalle uno zaino e alle orecchie calza due potenti auricolari da cui esce della musica. Mastica svogliatamente una gomma, intenta a chattare con qualcuno via telefono. Lei è quella che mi sta impedendo di correre giù per le scale perché non mi ha sentito arrivare, vista la potenza della musica che le bombarda le orecchie. Scendo altri due o tre gradini, rallentando sensibilmente, sperando che qualcun altro mi abbia sentito e poi esclamo: - Andiamo al mare eh!? Mara non si gira nemmeno questa volta, troppo intenta a premere sulla tastiera virtuale. Diciassette anni, bellissima e superba. È intrisa di quella noia tipica delle ragazze belle che sanno di poter ottenere ciò che desiderano senza sforzo e senza impegno. Questo le fa perdere un po' di quella preziosa corrente elettrica che è fondamentale se si vuole essere l'anima del gruppo. Lei, come un fiore tropicale, aspetta che siano gli altri ad avvicinarsi, ad idolatrarla e ammirarla, rimanendo ferma. L'unico sforzo che sa di doversi concedere è quello d'esser sé stessa e basta. Al resto devono pensarci tutti gli altri.
Mara, dicevamo, non si gira, forse perché non mi ha sentito o forse perché non ha interesse a farlo. È una ragazza indisponente ma le perdono questa sua spigolatura caratteriale perché è bella e quelle belle hanno le porte aperte anche quando si meriterebbero che le venissero sbattute sulla faccia. Mi sente però Luana che ha visto la nonna girarsi e che si è accorta della mia urgenza. Da un colpo dietro i reni di Uccio che sta con gli occhi chiusi per proteggersi dagli attacchi a colpi di saliva della propria madre che ha deciso evidentemente di fargli una doccia sul pianerottolo sbavandogli il viso col dito bagnato. Poi si fa largo spostando la nonna che per voltarsi fa cadere la stoina di bambù per terra, aprendosi impietosamente sul pianerottolo. L'espressione sorpresa e vacua dell'anziana mi commuove un pochino. "Chissà, penso, se anch'io sarò così, spaesato e precario, quando sarò anziano?"
Luana a quel punto da uno schiaffetto sul braccio della sorella maggiore che alzando la testa si toglie un auricolare e domanda: - Che vuoi?
Luana senza aprire bocca alza una mano e indica un punto indefinito alle spalle di Mara. Quel punto sono io.
La teenager si volta, mi vede e dice un laconico: - Ah.
- Scusa. Rispondo stentatamente mentre le passo di fianco attento a non strusciare un solo lembo del mio corpo contro il suo e mi riesce bene visto lo zaino ancorato alle sue spalle.
Si scosta di fianco, sulla sinistra mentre il tappo estrae la chiave dalla serratura manco fosse la baionetta infilzata nelle carni del nemico. Loredana imperitura continua nell'opera di pulizia della caccola nell'occhio di Uccio mentre lo rimprovera di essere un aborigeno paragonandolo per altro ad un maiale. Ora lo spazio di fronte a me è occupato dall'ingombrante sedere della vecchia che nel frattempo si è inchinata a raccogliere il tappetino caduto.
Non posso passare se non voglio creare un incidente diplomatico fra vicini di casa.
Sarebbe quantomeno sconveniente e inopportuno avventurarmi dietro le terga della simpatica chioccia ottantunenne. Aspetto finché Luana, la più sveglia della famiglia benché appena quattordicenne, svelta arrotola il tappeto e se lo infila sotto all'ascella.
Guardo prima lei, che mi sorride, poi Loredana che a quel punto alza lo sguardo ad incrociare il mio, rispondendo al saluto, poi il signor tappo che nel frattempo ha rinfoderato la chiave nella tasca come fosse la katana di un samurai dopo un duello vinto e che, paffuto alza una mano. Poi, infine Mara.
- Scusa. Sussurro.
- Niente. Risponde sbiascicando.
- Grazie. Ribadisco.
- Ciao. Sentenzia.
Mi intrufolo fra nonna cocca e Luana a cui sorrido debolmente e poi mi scaravento giù per gli scalini dell'ennesima rampa.
Il din don annuncia che l'ascensore è arrivato al piano. Salto i gradini due a due mentre sento i Tappi incastrarsi nell'abitacolo.
Devo correre.
Durante l'ultima rampa di scale, quella che porta al pian terreno mi tasto la saccoccia alla ricerca delle chiavi della porta di accesso al garage poi un dubbio mi assale. "L'ho messa fuori o dentro?" Continuo a scendere sentendomi un po' Amleto. Cerco qualche piccolo frammento di ricordo ma niente, non mi viene. Vabbè, ormai ci sono. Continuo a cercarmi addosso, trovo il mazzo che però fa resistenza. Non intende uscire o almeno vuol vendere cara la pelle il bastardo. Cerco di fare appello a tutta la calma di cui sono capace, rallento i movimenti ed escogito il metodo più logico e lineare per averla vinta su questo fottuto mazzo. Ce l'ho fatta, estraggo la chiave dalla tasca e la infilo nella serratura che girandosi spalanca le porte delle risposte alle mie atroci domande. Il box è proprio di fronte a me, faccio quattro passi e metto in posizione. Sto per infilare l'altra chiave, quella della porta basculante, quando sento che l'ascensore è arrivato al piano interrato. I Tappi stanno per uscire mentre il mio cervello comincia una sequenza quantica di pensieri a cui c'è solamente una risposta; sbrigarsi. Giro convulsamente la chiave e tiro a me la maniglia. La porta si alza ma una feroce visione riporta alla mia mente ciò che ho scelto di fare il pomeriggio precedente. Ho parcheggiato di fuori appunto per sbrigarmi ad uscire stamattina e invece come un fesso non me ne sono ricordato e sto perdendo del tempo prezioso.
Cazzo, i Tappi stanno uscendo scastrandosi dell'ascensore dove si sono auto pressati come sardine in scatola e non voglio farmi trovare qui sotto come uno scemo. Prima avevo talmente tanta fretta da sembrare che avessi il diavolo alle costole ed ora mi faccio trovare qui sotto facendo la figura dello stupido che non ricorda nemmeno dove ha parcheggiato? Giammai! Richiudo in tutta fretta schiacciando la punta della scarpa sotto alla basculante. Scarpa bianca, macchia nera. Cazzo. Sento la voce di Uccio che dice al padre che oggi vuole fare i tuffi, ormai sono fuori e stanno per aprire la porta.
Non mi va di farmi trovare qui al loro ingresso, troppo imbarazzante. Quindi opto per il giro più lungo. Percorrerò la strada che fanno le auto, uscendo dal cancello grande anziché passare per le scale che salgono fin su al piano terra. Preferisco il giro del palazzo ma salvaguardare la mia dignità. Affretto i passi, anzi, corro proprio, mentre sento la porta del garage sbattere alle mie spalle un momento prima di girare dietro il muro che mi copre alla loro vista. "Chissà se mi hanno notato?" Mi domando. "Se così fosse, i miei sforzi passati, presenti e immediatamente futuri sarebbero vani." Apro il portoncino pedonale e mi avvio ad affrontare la salita di cemento trotterellando. Una volta in strada finalmente, mi dirigo verso destra dove so che troverò la mia auto parcheggiata fra decine di altre macchine. Scelgo di passare sul marciapiede seppur molto più scomodo e stretto della strada poiché, penso, con un po' di fortuna passerò inosservato.
"Ma poi a loro cosa cazzo interessa di quel che faccio io?" Il quesito sorge spontaneo.
Questa è una bella domanda, mi dico mentre giunto in macchina apro la portiera posteriore per poggiare sul sedile il mio giacchetto che porto sempre meco seppur sia estate piena.
Siamo sempre attenti all'immagine che diamo di noi agli altri. Tanto attenti che spesso prendiamo in giro soprattutto noi stessi nello sforzo di sembrare chi in realtà non siamo.
Accendo il quadro e senza aspettare il ceck completo accendo il motore. Si accende anche la radio che trasmette "Sound of silence" cantata dai Disturbed che ne hanno fatto un'ottima versione arrangiata e cantata in modo drasticamente diverso dalla versione originale di Simon&Garfunkel.
Chissà se ai Disturbed interessa ciò che pensa la gente della loro cover?
Ingrano la retro mi volto per eseguire al meglio la manovra e parto piano, con delicatezza, senza esser avventato. Ho fretta certamente ma la sicurezza prima di tutto. Una Ford col suo clacson mi chiede autorevolmente di arrestare la mia marcia affinché possa passare. "Ma certo, prego!" Penso.
Dopo tocca a me, quindi tolgo il piede dal pedale del freno e proseguo. Manovra conclusa, schiaccio la frizione, tolgo la retro e ingrano la prima. Un ultimo sguardo allo specchietto e riparto. Nella cornice, il riflesso del muso del monovolume della famiglia Tappi fa capoccella sulla salita del garage.
"Beati loro che vanno al mare. A me tocca il turno di mattina oggi."
Il supermercato dove lavoro sta a ventitré chilometri di distanza e se sono fortunato in mezz'ora lo raggiungo. Fra un quarto d'ora però dovrei timbrare, quindi penso e ripenso a qualche scusa plausibile da imbastire mentre la strada secondaria del mio quartiere si immette in quella principale.
Mi fermo allo stop, abbasso la leva della freccia sinistra e aspetto il momento opportuno per partire. Dietro di me il monovolume dei Tappi indica l'intenzione invece di girare a destra, direzione mare.
Accendo l'aria condizionata per trovare un po' di refrigerio poi, vista la strada ormai libera affondo sull'acceleratore. Ora devo solo pazientare per qualche chilometro, fino al parcheggio del supermercato. Dovrò affrontare incroci, bivi, traffico e imprevisti vari che mi faranno perdere del tempo prezioso. Meglio rilassarsi e ascoltare un po' di musica. Alzo il volume, la canzone sta ormai finendo e canticchio mentre penso a quello da dire al mio capo reparto. Che palle, odio queste situazioni.
Duecento metri dopo mi aspetta il rosso al semaforo, come al solito non lo prendo mai verde. Menomale che questo è il primo dei tre e quelli successivi stanno alla fine, vicino al supermercato e per fortuna sono pedonali.

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