Seduta sul bordo della finestra, sento voci che non riesco a distinguere.
Se il vetro si rompesse, ora, improvvisamente, io cadrei nel vuoto di una città che non conosce alberi in fiore e pomeriggi con il Sole.
Non ho paura di questo, ma pensarlo mi viene naturale come lavarmi le mani dopo aver toccato qualcosa.
La mente non è lucida, sembra aver mancato l'ultimo gradino di una rampa di scale che, ormai, conosce a memoria.
Dalla finestra non vedo niente, è oscurata. Vorrei uscire da questa stanza quasi vuota, con le pareti bianche e solo un letto scomodo, una lampada a olio da soggiorno e uno specchio, ma la porta è stata chiusa a chiave dall'esterno. Uscire da qui, per me, è solo un sogno che la Notte non può permettersi di donarmi.
La Notte porta incubi, sogni di morte, pianti incoscienti, movimenti ostili e spasmi ipnici. Il Dí non è più gentile: non mi permette di fare niente, se non di voler restare sul letto per sempre, o di non volerci restare per un attimo di più.
Che differenza c'è, tra il Dí e la Notte? Infondo, la giornata è sempre la stessa. Se non va bene, non puoi cambiarla: devi viverla, perderla e riprenderla di vista. La Notte è buia e il Dí è pieno di Sole, ma anche se fosse il contrario, noi umani non ce ne accorgeremmo.«Sta bene, sì. Non c'è nulla che possa farla sentire male. Ha della carta e una penna per poter scrivere ai suoi amici e a chiunque lei voglia. Se desidera fare qualcosa, può farlo, è solo molto pigra».
Sento qualche goccia di sudore passare sotto al camice bianco con i fiorellini blu, ho paura che qualcuno possa entrare a parlarmi o a chiedermi qualcosa, o a venire a vedermi senza voler parlarmi, come se fossi un animale in gabbia.
Cammino lentamente verso il letto ma non mi sdraio, mi siedo per terra, dove il pavimento è fresco come la mia pallida pelle.
I muscoli si stanno lentamente sciogliendo e le ossa li accompagnano a suon di stanchezza. Stanchezza del non fare niente.Il manicomio è inospitale, nessuno viene a trovarmi anche se io stessa non lo vorrei.
Come ci sono finita, in questo luogo?
Stringo la mano in un pugno, pensando alle ragnatele sul soffitto e ai bruchi che non diventeranno mai farfalle. Non respiro. Nelle mie orecchie sento tanti suoni veloci e tutti uguali, l'uno più veloce dell'altro. L'ultimo è lungo, non smette di suonare questa macabra canzone inesistente.
Una lacrima mi scende sul volto, ma, appena alzo la mano per asciugarla, non sento niente, se non pelle asciutta e appiccicosa. Mi alzo con molta fatica, e vado verso lo specchio.
Non c'è nessuna lacrima, nessun segno del mio stato attuale, della mia disperazione. Ancora una volta, tiro la pancia in dentro e appoggio il mio corpo, che pare morto, al comodino. Così non faccio rumore.
Di questa lacrima, creatasi nella mia riprovevole immaginazione, non c'è alcuna traccia. È proprio questa la triste imperfezione dell'essere umano, pazzo e malandato: non riuscire a chiedere aiuto, o pensare di non averne bisogno, finché una lacrima non si posa sul suo volto. Finché immagini, senti la speranza, il respiro caldo che abbandona il tuo corpo dopo aver creduto in qualcosa. Dopo che l'immagine distorta di una realtà che di reale non ha niente viene scoperta, però, è tutto finito.
Apro la mano che fino a poco fa era un pugno e vedo delle macchie rosse, quattro. Questo viene sempre accompagnato dal "perché l'ho fatto?!" e dalla nausea, logorante aspirazione di un animo perforato da ansie e pressioni.
Niente lacrime, niente respiro. Questo è il processo che porta alla mia decomposizione, in un letto di un manicomio che sembra non essere mai stato mio.
Niente è mio, neanche il mio respiro, né la mia Notte, o il mio Dí. Smetto di respirare con così tanta facilità che le unghie nel palmo della mano sembrano non perforarmi la pelle.
Non respirare, ripete la mia mente, come se quest'azione non fosse necessaria per vivere, come se volesse ottenere il contrario di quello che il respiro dona.
Se questo respiro non è mio, non dovrebbe uscire dal mio corpo. Eppure non ho ancora capito se la sua mancanza è frutto della mia immaginazione o no.Mi trovo di nuovo per terra, con la testa rivolta verso la porta ma gli occhi che guardano la finestra.
Devo essere fuori di qui, ma voglio uscire dalla porta o dalla finestra? L'importante è che sia fuori dalla mia mente, che, purtroppo, è l'unica cosa realmente mia.
Non passano i minuti, le ore, né i giorni e le settimane. Passano solo la Notte e il Dì, come compatte sensazioni che mi tolgono il respiro.
Sento il muoversi delle lancette, ma non possiedo alcun orologio. Il tempo è immobile, fermo tra la via di casa e un sentiero di sassi, erto e tagliente.
Non passa neanche un secondo, o forse un'ora, che mi trovo a picchiettare con le dita sul pavimento. Mi diverte.
Ma questa situazione dura giusto il tempo di ricordarmi di voler scappare
Perché era questo il mio obiettivo, vero? Non lo ricordo più. Poco importa, alzarmi dal pavimento sarà un'impresa che Omero non sarebbe stato in grado di inventare né i popoli di tramandare.
Ma prendo forza e mi alzo, anche se le ossa sono talmente sciolte da essersi appiccicate alla pelle e da non voler più tornare a stare in piedi.
Finalmente il mio corpo è retto dalle gambe, che, pur essendo giovani, sono stanche come se avessero lavorato nelle miniere per tutta la vita.
Ma la vita mi sta stretta, e nemmeno il carro più veloce potrebbe portarmi dove vorrei essere io.A passi lenti, procedo verso la porta. Ma, appena appoggio la mano sul pomello laccato in oro, mi ricordo che è chiusa a chiave. Avvicino l'orecchio per sentire se le persone di prima stanno ancora parlando tra loro.
«No, non ho nulla in contrario. Allora martedì la porterai via... va benissimo! Un po' di aria aperta le farà bene. Grazie».
Mi manca ancora il fiato. Anzi, sono io a farmelo mancare, com'è successo prima, e prima ancora, e tante volte in precedenza. Senza accorgermene, non respiro, non vivo. Lascio che la mia vita venga condotta da altri, perché da qui non posso fare niente. Qui, il potere che esercitavo e che dovrei esercitare sulla mia vita, è inesistente. Chissà cosa succede, fuori da questa finestra, se il cielo è cupo o soleggiato, se le strade sono attraversate da pedoni o se sono deserte. Chissà com'è esistere, o com'è visitare quel luogo dove tutti hanno paura di entrare; gli Inferi.
Respiro male, ma penso bene, adesso. Mi dirigo nuovamente verso la porta e, preparandomi, facendo un bel respiro, la apro con tutta la facilità. Non era chiusa.
Alzo lo sguardo da terra e noto che davanti a me ci sono due persone: mia madre e sua sorella, mia zia. Il corridoio è quello di casa mia, con le pareti di un verde foresta e il pavimento in pietra, non quello del manicomio.«Sei sveglia! Da quanto?» chiede mia madre. Io non riesco a rispondere. Ho le parole bloccate nella gola come se non parlassi da decenni.
«Io e la zia stavamo organizzando una piccola gita, solo tu e lei».
Gita? No, non posso. No, no, no. Incontrare persone, parlare, dover ridere. No.Giro lo sguardo verso la porta della camera e noto che è diversa, sulle pareti c'è una carta da parati rosa e all'angolo c'è una scrivania in legno.
Entro, e mi sento pazza, da manicomio. C'è una cosa che, come la porta aperta, mi stupisce. La finestra non è oscurata, vedo il paesaggio e non c'è nessun pannello che me lo impedisce. C'è mai stato? O era tutto nella mia mente, nella mia immaginazione?
Vado a chiudere la porta della mia camera e mi siedo a terra, di nuovo.Apro la mano, e le quattro macchie rosse sono ancora lì, comode, solo più secche di poco fa.
Stendendo le gambe, osservo il mio camice bianco con i fiorellini blu.
Chiudendo gli occhi, le labbra si serrano e le narici si pietrificano. Le mani ticchettano sul pavimento per dare un respiro a un corpo che non ce l'ha.
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Non respirare
Short StoryNon respirare, ripete la mia mente, come se quest'azione non fosse necessaria per vivere, come se volesse ottenere il contrario di quello che il respiro dona.