Storia Breve
JikookLe stanze si andavano riempiendo a poco a poco del profumo che si sprigionava dai vasi con i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavano sottili da una specie di stelo dorato allargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro il fiume Han alla luce di Seul. Nessuna altra forma di coppa eguagliava in eleganza tal forma: i fiori dentro quella prigione diafana apparivano quasi spiritualizzarsi e meglio dare immagine di una religiosa o amorosa offerta. Jeon Jungkook aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose attorno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ciliegio ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica, antiche forme di inimitabile grazia. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. Jungkook si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ciliegio. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano. Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Jimin un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora di intimità. Egli aveva molta arte nell'accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville.
Così dunque, aspettando, Jungkook rivedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Andò alla finestra, di nuovo, e guardò verso le scale, di fronte la sua dimora. Jimin, un tempo, saliva per quelle scale per andare da lui. Certo, egli sarebbe stato vinto da quella dolcezza così; piena di memorie; avrebbe d'un tratto perduto ogni nozione della realtà; del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno dei suoi impegni abituali, di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d'esser pur sempre il Jimin d'una volta. Se il teatro dell'amore era immutato, perché sarebbe mutato l'amore? Certo, egli avrebbe sentito la profonda seduzione delle cose una volta dilette... La fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto Jungkook rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva dei giorni che ora passavano inutilmente per la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso... La sua vita si consumava in sè stessa, portando in sé; la fiamma inestinguibile di un solo desiderio, l'incurabile disgusto d'ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era come una ribellione violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza che non si rassegnava a morire.
Allora cominciò a ricordare, quelle parvenze di immagini che si susseguivano portando con sé quella lussuria che tanto bramava ma che non avrebbe più trovato. Ricordava quando Jimin gli toccò i capelli, col gesto un tempo familiare ma che non avrebbe più sentito tra quella distesa corvina. O ancora, quando tornava nella stanza, dopo essersi vestito, mettendo i guanti o chiudendo il gilet sempre perfettamente stirato; sorridendo in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta egli faceva sollevando un poco il pantalone ed avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Jimin aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le immagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Jimin stava per varcare di nuovo quella soglia. Tra mezz'ora, certo, lui sarebbe venuto, si sarebbe seduto in quella poltrona, togliendosi la giacca, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lui, forse anche il riso di lui, dopo due anni. Jungkook si disse quanto la parola fosse stata una cosa profonda... E quelle che Jimin gli dedicava passavano ove non c'era spazio se non per quella sua voce che sussurrava beatimento e lussuria. Quell'aria aspettava il suo respiro; quei tappeti chiedevano di essere premuti dal suo piede; quei cuscini volevano l'impronta del suo corpo. E pensava, con una specie di ebrietà poiché la musica di quei sottili ricordi, gli aumentava l'eccitamento. Il giorno del gran commiato vide un Jimin arrendevole, volerlo lasciare. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Jungkook. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. Jimin taceva, avvolto nell'ampio mantello, con le mani chiuse nei guanti. Jungkook aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio esalante dal prezioso vestito, mentre sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lui. Ambedue si
credevano lontani dagli altri, soli; ma d'improvviso passava la carrozza nera d'un prelato; o una mandria di bestiame. A mezzo chilometro dal ponte Jimin disse:
- Scendiamo. - Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un'acqua sorgiva; e, come gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un illusion visuale che l'ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose. Jimin disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro: - Io parto stasera. Questa è l'ultima volta... -
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𝒯𝒽𝑒 𝒫𝓁𝑒𝒶𝓈𝓊𝓇𝑒
Short StoryAdattamento quasi moderno tratto da una piccola parte del libro "Il Piacere" di Gabriele D'Annunzio...