27. "CHI SONO IO?"

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«Joshua ha deciso di rimanere laggiù per darci più tempo...» Il ricordo di quel momento la ammutolì. Trattenne le lacrime e ingoiò il pianto.

Gilbert sentì il peso di quelle parole all'altezza del petto. Simon si piegò sui talloni per incontrare gli occhi bassi di Ariel che non era riuscita a reprimere il dolore.

«Oh, Ariel!» sorrise Simon. «Non sai quanto le tue parole mi stiano consolando!» le strinse entrambe le mani. Lei posò gli occhi bruni sul viso barbuto di Simon, tirò su col naso: «Dici sul serio?»

«Sì, perché se Joshua ha deciso di compiere quel gesto, vuol dire che lui sapeva già qualcosa che noi ancora non sappiamo.»

In quel momento, non seppe se confidare a Simon quanto Joshua avesse scoperto. Trattenne il fiato come a reprimere quella verità e si ammutolì. Si girò e fece per andarsene, seguendo Gilbert.

«Ariel!» la chiamò Simon. 

Gli occhi sbarrati. «Sì?» 

«Dovevi dirmi qualcosa?» 

«No, no!» rispose secca, scuotendo la testa. «Passavo di qui e vi ho sentiti parlare. Perdonami...» si scusò, con occhi bassi.

«Così, anche tu leggi nel pensiero.» le sorrise mostrando i denti. «Stai prendendo il nostro spirito.»

Un sorriso da far luccicare gli occhi e poi una corsa lungo le scale per andare ad aiutare la cuoca del Centro.

Per tutto il giorno, Acab non si era fatto vivo, nemmeno in mensa per il pranzo. Nel pomeriggio, Ariel decise di andare a trovarlo.

Una volta arrivata al piano superiore, si guardò intorno: il corridoio era vuoto, la luce del sole proveniva dalla sua sinistra e illuminava la pavimentazione riflettendo la forma rettangolare delle ampie finestre. Il tramonto rabbuiava anche i suoi pensieri, così, indecisa sul da farsi, incrociò le braccia al petto e, avvolta da una sensazione di inadeguatezza, si avvicinò alla porta bianco laccato; si sporse in avanti e, sfiorando col capo la superficie liscia, si mise in ascolto.

«No...No!» sentì pronunciare come un ringhio; poi dei lamenti gutturali le fecero venire i brividi.

Cosa ti sta succedendo, Acab...?

Si mosse cauta verso l'ampia vetrata posta poco più avanti sulla sua sinistra e da cui si poteva intravedere l'interno della stanza, ma le tapparelle semichiuse rendevano difficile l'osservazione. La figura di Acab percorreva la stanza in lungo e in largo, alzando e abbassando la testa in un movimento sinistro; le mani si spostavano frenetiche dalle tempie al volto e ai capelli.

Poi, senza preavviso, quasi come se lui avesse avvertito la sua presenza, si fermò. Girò il busto nella sua direzione. Ariel iniziò ad avvertire un tremore alle gambe per cui sarebbe stato prudente scappare, ma rimase lì, immobile.

Acab le si posizionò di fronte, oltre il vetro. Lei vide chiaramente la maglia chiara e riuscì a sentire il respiro concitato, spezzato dai gemiti. Le braccia tese, i pugni chiusi.

Ariel tentò di aguzzare la vista oltre le tapparelle: si mise sulle punte, alzò il mento e, tra le fessure, si accorse dei suoi occhi: zaffiri vuoti, persi, gelidi.

Ariel deglutì, con la sensazione di avere una grancassa al posto del cuore. Poggiò il palmo al vetro, ma fu un attimo, perché un colpo violento la fece sbilanciare. Acab aveva tirato un pugno nella direzione di Ariel che comprese quanto fosse stata provvidenziale la sua decisione di non entrare nella stanza; se non ci fosse stata quella lastra trasparente, il colpo sferrato l'avrebbe sicuramente lasciata a terra, priva di sensi. Così si allontanò da quel vetro sfregiato, quando nel petto ormai era esplosa la sensazione che, vicino a lui, sarebbe stata sempre in pericolo.

Corse per le scale e una volta arrivata al piano terra, dovette reggersi all'architrave della porta anti panico aperta verso l'ala della mensa, stringendo nel palmo destro il ciondolo a forma di testa di leone che portava al collo. La cassa toracica si espandeva e contraeva in maniera irregolare.

Pensò in un primo momento di cercare Lucia ma il sentore di amarezza le cancellò dalla mente quel pensiero.

Elemosinò ossigeno e con gli occhi cercò Gilbert forse perché, in fondo, sperava che la reazione di Acab fosse il frutto di uno stato mentale instabile, dovuto alla sua condizione di pseudo prigionia.

Quando Gilbert le passò di fronte, diretto verso il cortile, lei lo tirò dalla manica della giacca di velluto marrone.

«Ariel!»proruppe con occhi sbarrati dietro gli occhiali. «Che succede? Mi hai spaventato...» la mano sul cuore.

«Non sono io che devo farti paura, ma la reazione che sta avendo Acab nell'infermeria.» Gilbert la osservò con un cipiglio. «E tu che ci facevi, lì?»

«Ero andata a controllare se stesse bene.» si giustificò.

«Questo è il mio compito, Ariel.»

Lo sguardo austero di Gilbert rivoltole con fronte aggrottata sembrò confermare quel che lei aveva da tempo intuito: c'era qualcosa di strano nel suo interessamento verso chi l'aveva manipolata.

Così si diressero insieme verso l'infermeria e, prima che l'uomo stringesse la maniglia, si voltò verso di lei serrando la mascella. «Tu rimani qui.» le ordinò e lei non poté far altro che annuire.

Gilbert si mosse con cautela in quell'oscurità. Era chiaro che la luce del sole lo avesse in qualche modo infastidito, o probabilmente si stava solo preparando a ricevere le tenebre. La serranda dell'ampia finestra posta in fondo alla stanza era stata completamente abbassata e dalla luce proveniente dalla porta aperta alle sue spalle vide che sul pavimento c'erano il vassoio e il piatto che avevano contenuto la sua colazione. Inspirò e pose le mani ai fianchi. «Acab!» chiamò ad alta voce. «Dove sei?» 

Un momento di silenzio e poi dei movimenti provenienti dal bagno alla sua sinistra lo portarono in quella direzione. Poggiò l'orecchio alla superficie di legno e chiese: «Cosa ti succede?»

«Non posso...» rispose l'altro dall'interno.

«Cosa non puoi? Acab, apri la porta!»

Le voci nella testa di Acab assumevano ora il timbro del padre, ora quello della sorella. Poi, mentre si trovava di fronte al suo riflesso dello specchio, aggrottò la fronte, i capelli neri scompigliati sul volto, strinse le mani alla superficie di ceramica del lavandino.

 «Acab!» la voce di Ariel lo chiamò dall'esterno provocandogli una sorta di blackout nei pensieri. La sua voce, espressa anche in una sola parola, scardinava tutto il suo apparato demoniaco con un colpo al cuore.

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