27. "Chi sono io?" Pt.III

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Non puoi sfuggire al tuo compito! La tua anima mi appartiene!

Erano circa le due di notte e Acab non riusciva a dormire. Incubi fatti di sangue, urla e pianto, lo avevano raggiunto anche lì, nella Chiesa di Filadelfia.

Simon poi non l'aveva raggiunto e, nell'attesa, le oscurità stavano nutrendosi del suo risentimento.

Nessuno può salvarti! Sono solo uomini e donne privi di ogni potere!

Solo noi abbiamo il potere... su tutto!

Le voci dei sui demoni custodi riempivano la mente costringendolo a colpirsi ripetutamente il capo con i palmi delle mani.

Si mise seduto nel letto stringendo i capelli tra le dita, tentò di rinchiudere quelle voci in un urlo silenzioso stretto tra i denti, per non farsi sentire da nessuno.

In quel piano del Centro, oltre l'infermeria c'erano proprio le stanze delle famiglie, la maggior parte delle quali con bambini in età scolare. Tra quelle, c'erano anche le stanze di Heliu e Lucia.

Anche lei non riusciva a dormire. Si era svegliata di soprassalto con il rumore dei colpi di Acab alle pareti; era seduta sul letto e guardava lo schermo del telefono con il labbro tra i denti, combattuta sul da farsi: se Acab avesse smesso di lì a qualche minuto non ci sarebbe stato motivo di chiamare nessuno, ma la sensazione che quell'essere potesse fare qualche danno a se stesso e quindi alla Struttura la costrinse a digitare il numero di Ariel, pur a malincuore.

Chiamando lei, sperava di placare i demoni di Acab; infatti, tutti avevano compreso che tra i due ci fosse un legame particolare, diverso e, per certi versi, insensato.

Il Corpo di Cristo avverte tutto... si disse Lucia, in attesa della risposta con il telefono all'orecchio.

Anche i Lucifer sapevano quanto fosse importante il Corpo di Cristo, ovvero l'entità spirituale formata da tutti i componenti della Chiesa, legati dal legame del Cielo a un Mandato. In quel caso, il Corpo della Chiesa di Filadelfia era talmente diventato un pericolo per l'evoluzione del potere dei Lucifer, che non sarebbe bastato far fuori solo il Capo.

In effetti, erano i corpi di tutti i residenti del Centro di Aggregazione che Acab vedeva distesi su laghi di colore scarlatto. Tutti uccisi per mano sua. Tutti. Uomini, donne, bambini.

Lei.

«No! Lei no!» urlò, sbattendo più volte la spalla contro la porta dell'infermeria.

Le mura sembravano essere scomparse dentro un vortice di fumi neri che oscuravano i suoi occhi e bloccavano i polmoni e, per un attimo, vide il volto del padre a pochi passi da lui. Senza rendersi conto di dove si trovasse realmente, cacciò via quella visione sferrando un pugno che colpì il vetro già sfregiato dell'infermeria.

Al sentire il rumore di vetri rotti, Lucia si decise a uscire. Indossò la vestaglia, girò le mandate della porta e rimase per qualche istante in ascolto. Quei vetri sembravano rompersi nuovamente sotto il peso di qualcuno che ci passava sopra; sbirciò oltre l'uscio e, nel vedere che Acab si avvicinava all'ampia finestra con passo trascinato, uscì incedendo come un soldato. «Ehi! Ehi, tu!» lo chiamò. «Cos'hai intenzione di fare? Non ti basta quanto hai già fatto?» la fronte corrugata di Lucia non sortì alcun effetto in lui, tant'è che, dopo averle rivolto uno sguardo vacuo le mostrò un mezzo sorriso. «Hai ragione, Profetessa.» il dorso della mano a sfiorare la guancia.
«Nessuno soffrirà più a causa mia.»

Lucia, raggelata da quelle parole e dal suo gesto, non appena lo vide salire sul davanzale che dava sul cortile urlò graffiandosi la gola.

***

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