Capitolo 7

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Giovedì 26 ottobre

Le parole del Dottor Marks non fecero effetto. La camicia di forza tornò ad impossessarsi di Eleonor, blindandola in una presa ferrea da cui nessuno aveva scampo. La ragazza guardava la parete imbottita davanti a se; la porta si mimetizzava alla perfezione, sembrava non esserci (se non fosse per quello strano specchio accanto ad essa). La sua sanità mentale continuava ad andarsene sempre di più.

Un giovane era al di là dello specchio, la osservava. Non riconosceva più la sua figura. Era sempre più magra, e colma di lividi. Quel vestiario bianco si contendeva il trofeo con la pelle sempre più cadaverica di lei. Quei capelli rossi, una volta brillanti, erano sempre più sporchi e spenti. Le caviglie tendevano ad un colore violaceo, era dovuto alla stretta delle catene che aveva portato, e al freddo pungente della cella.

Il giovane se andò non appena vide un uomo avvicinarsi alla stanza. Tentò di passare inosservato, e riuscì alla perfezione nel suo intento. In pochi si accorsero di lui, ma non gli porsero alcuna domanda. Il medico aveva raggiunto la camera blindata. Appena entrò fece ingerire alla ragazza un cocktail di farmaci. L'avrebbero resa calma per un lasso di tempo.

Il Dottor Marks non sarebbe andato quel giorno, e non avrebbe mai visto il volto disinvolto della giovane.

Ella rimase ferma immobile dinanzi al dottore. Non si sarebbe opposta, non avrebbe avuto ne la possibilità ne la volontà. Si era arresa al destino già da anni, non aveva senso iniziare a lottare proprio in quel momento. Ingurgitò quelle pastiglie, senza se e senza ma. Sentì la testa pesante, e gli occhi le giocavano brutti scherzi.

<<Vediamo se così inizierai a stare buona>> le disse il dottore. Uscì da quella stanza bianca, con il volto colmo di soddisfazione. Adorava il suo lavoro, non smetteva per un secondo di ripeterlo a se stesso. Rimaneva affascinato dai pazienti quando assumevano i farmaci; andavano in una specie di trans, da cui facevano ritorno dopo svariate ore, o addirittura giorni. Quelle visioni lo appagavano. Ma non si può dire che valga lo stesso per i suoi colleghi. Alcuni erano stufi di lavorare lì, altri ci avevano fatto il callo.

D'altro canto, Endrick Marks era a casa, chiuso nel suo studio. Stava volontariamente vagando su internet. Era intento a cercare informazioni sulla famosa Lizzy. Grazie a suo figlio era entrato nei registri scolastici, e stava esaminando i contenuti. La stampante era in funzione, da più di un'ora stava stampando numerosi fogli. Non si era perso d'animo: si sentiva un agente dell'FBI. Sapeva che era scorretto, e forse anche illegale, ma era disposto a tutto pur di aiutare la ragazza. C'era qualcosa in lei che lo spingeva ad andare oltre, a non rimanere fermo con le mani in mano. Soprattutto a non arrendersi.

Spinse la sedia dalla parte opposta alla scrivania. Prese i fogli dalla stampante, e li spostò sulla scrivania per metterli in ordine. Il giorno precedente aveva acquistato delle buste trasparenti ed un raccoglitore ad anelli. Al loro interno inserì i fogli stampati. Analizzò il contenuto con ancora più pazienza e concentrazione. Era difficile distrarlo quando si cimentava a pieno nei suoi obbiettivi.

<<Caro che ne dici di fare una pausa?>> la moglie lo raggiunse nella stanza. Si avvicinò al marito, posandogli poi le mani sulle spalle. <<Non adesso, forse tra poco>> gli sorrise lui. <<Non voglio che ti stanchi troppo. Poi diventi una palla al piede>> lo rimproverò lei posandosi le mani sui fianchi. Il dottore spostò di poco la sedia, e la fece sedere sulle sue cosce. Le accarezzò la schiena. <<Non preoccuparti, fra poco faccio una pausa, promesso>> una promessa falsa, quella pausa non l'avrebbe mai fatta.

<<Inutile promettere se poi non mantieni>> lo riprese lei autoritaria. <<Che cos'è questa volta che non ti lascia riposare?>> chiese la donna. Lui la guardò sconsolato, <<la ragazza continua a parlare tramite frasi sconnesse. Non riesco a capire dove possa essere il collegamento fra tutto. Ho solo il nome di una ragazza: Lizzy>> spiegò l'uomo a sua moglie. Quest'ultima rimase interdetta dalle sue parole, e capiva la frustrazione che suo marito possedeva in corpo.

<<E tutti questi fogli?>> indicò il quaderno. <<Sono vecchie pagine di registri scolastici. Ma li ho stampati per niente, spreco di carta>> le accarezzò ancora la schiena. <<Perché non chiedi ai suoi genitori?>> ma lui negò. <<Non sanno chi sia>>.

<<E i suoi amici? Chi meglio di loro?>> la donna non aveva tutti i torti. <<Già, forse dovrei chiedere a loro. Grazie mille cara>> gli sorrise. <<Forse è giunto il momento di una pausa. Preparo del tè per entrambi>> il Dottor Marks si alzò trascinando con se la moglie in cucina.

Preparare il tè era la scusa perfetta per pensare senza i fogli davanti. Rimuginare sull'accaduto senza alcuna traccia scritta. Egli pensò, tanto, forse troppo. Le tempie iniziarono a pulsare, e la schiena iniziava a fargli male. Era segno di un'improvvisa stanchezza. Il suo corpo lo stava avvertendo, ma a lui non sembrava importare.

<<La pausa consiste anche nello smettere di pensare>> lo rimproverò ancora una volta la moglie, sedendosi sulla sedia, incrociando le braccia sotto al seno. <<Scusa, hai ragione. Ma mettiti nei miei panni, se vedessi con i tuoi occhi quella ragazza ti si spezzerebbe il cuore>> versò il tè ormai pronto in due tazze, e si accomodò accanto a lei.

<<Non lo metto in dubbio, ma dovresti spegnere il cervello per qualche minuto>> lui annuì, lasciandosi finalmente convincere da quelle parole colme di preoccupazione. <<Non è facile per te lo so. Ma non puoi diventare matto per lei>>. Queste parole entrarono nelle orecchie dell'uomo, e non ne uscirono, poiché fu strano sentire queste parole dalla sua amata.

Non poteva diventare matto per lei.

C'era forse il rischio che diventasse lui lo psicopatico? Non aveva mai preso questa considerazione; neppure per un'istante con gli altri pazienti. Ma come aveva detto lui stesso, quella ragazza era diversa e doveva assolutamente essere salvata.

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