UN PASSO INDIETRO: ARIEL

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Università di Filadelfia,
sette mesi prima.

Non so perché, ma quel ragazzo della segreteria ha mosso qualcosa dentro la mia pelle, elettrizzando un muscolo che pareva atrofizzato.
Joshua...

Per non parlare di quel Damian: due occhi come diamanti incastonati in un volto dalle fattezze angeliche, ma sinistri come quelli di un demone.

Basta, Ariel, non ci pensare. Pensa a studiare, pensa a tua madre da sola a chilometri di distanza che aspetta la tua telefonata e che puntualmente non arriverà.

Perché sono così? Perché non mi importa nulla ne della mia famiglia, ne di me stessa?

Sono un bozzolo appeso a un ramo che ondeggia al vento, pronto a cadere.

Un leoncino che urla a chi vuole usarlo come un pupazzo.

Quando questi pensieri si agitano in me, il gelo cala nel mio cuore, riducendo ogni parte della mia anima in un inverno burrascoso.

Cammino sulla via appena fuori dall'università, dove il cemento cosparso di petali lilla dei glicini sembrano voler creare un tappeto sopra l'asprezza di quel grigiume dell'asfalto. La pianta, arrampicandosi da un muretto posto in corrispondenza dell'uscita, si affaccia sul viottolo che sto percorrendo e, insieme ad un calore improvviso, noto che una coltre di fumo nero che avvolge la mia vista.

Istintivamente, cerco con gli occhi la mia auto, mentre quella nube tossica occlude le mie vie aree costringendomi a tossire; così porto il tessuto della mia sciarpa sopra il naso, per evitare il soffocamento e la vedo: la mia piccola auto, comprata con la fatica di un lavoro come cameriera in ristorante di provincia e con i sacrifici di mia madre, è in fiamme.

La borsa mi cade al suolo, un gelo avvolge il mio corpo e tremo come una foglia. Nego in un sussurro le difficoltà che dovrò affrontare per tornare a casa, quando vedo un'ombra dai contorni indefiniti tra le fiamme. Le oltrepassa, quasi fossero nebbia al suo cospetto.

Due occhi celesti e gelidi mi fissano con aria soddisfatta.

Mi allontano di un paio di passi senza levargli lo sguardo di dosso.

«Chi sei?! Che vuoi da me?!» gli urlo isterica.

È lo stesso ragazzo della segreteria, lo stesso della caffetteria.

«Calmati leoncino, sono qui per aiutarti...»

«Non ti avvicinare!»

Acab Damian

La mia mente ricorda il suo nome in un flash. Andando indietro non mi accorgo del muretto che, alto fino alle ginocchia, rischia di farmi cadere rovinosamente a terra.

Avverto il peso della gravità prima che lui mi stringa le braccia e mi sostenga.
In quel frangente, noto ogni particolare del suo viso: i suoi occhi sono come un mare inesplorato in cui si rischia di affondare; nel suo viso sono disegnate labbra carnose e curvate in un sorriso; i capelli neri come pece e di media lunghezza adombrano l'espressione. Sembra una scultura perfettamente levigata di cui l'occhio non sazia mai.

Rimessa in piedi ritrovo l'equilibrio, ma avverto quasi subito un laccio invisibile che mi trascina verso di lui che cammina a passo lento, le mani in tasca, verso un'auto nera dalle linee sofisticate.

«Ti accompagno io» dice, aprendo la portiera del passeggero.

Lo fisso intensamente sorridermi con sguardo languido. Sono i suoi occhi, è colpa loro se mi fermo immobile senza controllare le palpitazioni; il respiro fermo in gola.

Le sue iridi di un blu intenso, sussurrano alla mente parole di un universo fin troppo piacevole.

E, come se avessi subito un incantesimo, incapace di elaborare quel che mi sta accadendo, mi stringo l'abbottonatura della camicia mostrando nocche bianche.

Deglutisco saliva copiosa, come se, col solo sguardo mi avesse vista interamente nuda.

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