PROLOGO

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Dalle ceneri di quel ragazzino insicuro e fragile

15 gennaio 2003, 17 anni prima

«Christopher è un secchione! Christopher è un secchione!»

Andrea Sabatini era il mio incubo personale.

A tredici anni, dicono sia del tutto normale pensare che il mondo ce l'abbia con noi ed io lo sapevo bene, essendo sempre stato un lettore onnivoro.

Divoravo riviste di ogni tipo: da quelle di attualità, a quelle di scienze.

Leggevo di tutto. In continuazione.

Quindi, in quel delicato momento della mia vita, sapevo perché la mia voce stava cambiando e perché l'odore non proprio piacevole, che proveniva dalla mia pelle, non si affievoliva nemmeno con litri di bagnoschiuma.

Sapevo. Ero conscio del mio cambiamento.

Stavo attraversando quell'incredibile ed entusiasmante parte della vita di essere umano, che veniva definita adolescenza.

Capivo un po' meno il motivo del mio fisico gracile e sottile come un ramoscello d'ulivo; debole e pietoso sotto il vento impudente degli inverni perenni. Non aiutava nemmeno la mia miopia catastrofica che peggiorava sempre di più dall'età di sei anni, costringendomi ad indossare degli occhiali indecenti e spessi.

Davvero, sapevo di non essere un adone. Non ero nemmeno lontanamente vicino al prototipo estetico da Teen Choice Awards.

Di certo, mi sentivo più affine a Leopardi: affamato osservatore della vita.

Insomma, in una sintesi meno poetica e più contemporanea ero...uno sfigato.

Andrea Sabatini era il mio alter ego: bello, alto ed atletico. Avrei voluto almeno attribuirgli un difetto ripugnante, tipo l'alitosi persistente ma, purtroppo, oltre alla bellezza e ai litri di profumo da uomo, che indossava per la gioia delle nostre coetanee, era anche molto intelligente ed arguto. Terzo nella classifica dei più bravi dell'istituto.

Indovinate chi era il primo indiscusso?

Ma tornando a Sabatini, anche in quel grigio venerdì pomeriggio di gennaio, era intento a divertirsi con i suoi amici, fuori dal cancello scolastico. Fumavano - o almeno ci provavano - delle sigarette con stereotipate pose da veri duri.

Mi facevano pena.

Avrei tanto voluto urlarglielo in faccia, ma nella vita reale non avevo lo stesso coraggio che possedevo nella mia mente.

Ad esser sinceri, non riuscivo nemmeno a guardarli dritto negli occhi senza abbassare lo sguardo.

Mario, l'autista della mia famiglia, mi aspettava a 300 metri di distanza, nel parcheggio delle poste, di fronte alla scuola.

Dovevo solo stringere i denti, anche quella volta e passare attraverso il gruppo poco fuori dall'uscita. Calai sulla fronte il mio berretto dei Tottenham Hotspur e procedetti a passo di marcia verso il patibolo.

«E dai, Moore. Lo sai che non sei spiritoso? Sei ancora offeso, perché ho scritto sul tuo giubbino Muuuuori (Moore) con il bianchetto? Povero cucciolo!»

Osservai con insistenza le mie scarpe, cercando di sembrare più invisibile possibile.

Mi chiedevo, ogni benedetto giorno, che cosa avessi fatto di male per meritarmi tutta quella infima cattiveria.

Non me ne capacitavo. Ero il ragazzo più insignificante del pianeta. Eppure, per quei ragazzi annoiati dalla vita, ero diventato un gioco proibito e soddisfacente.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 06, 2020 ⏰

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