Cadeva neve nera

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Era un giorno d'inverno, faceva molto freddo, i bombardamenti erano terminati e tutto ciò che restava della mia città erano macerie e cadaveri. Il fumo di quei maledetti arnesi corrompeva, con il suo cupo grigiore, il puro candore della neve che cadeva lenta e dolce su di noi.

Io ero in mezzo alla strada, cercavo tra i volti dei superstiti quello che, per tutti quei mesi di guerra, mi aveva dato il coraggio di andare avanti; dentro di me il terrore cresceva alla stessa velocità con cui si affievoliva la speranza di rivederlo. Fu solo dopo che la folla mi ebbe sorpassato che, quella che fino ad allora era stata solamente una paura, si trasformò in un'agghiacciante verità: lui non c'era.

Iniziai allora a perlustrare febbrilmente le file dei caduti e quando constatai che lui non era neanche lì, avvertii la morsa di ghiaccio che mi stringeva lo stomaco allentarsi un poco; ma poi compresi che era disperso e allora, per un solo folle attimo, desiderai fosse morto, poiché l'incertezza sulla sua condizione era ben peggiore della certezza di essa.

Immediatamente mi diedi della sciocca per aver desiderato una cosa simile e corsi a cercarlo, non mi fermai nemmeno ad ascoltare i miei famigliari che mi pregavano di andare con loro nel rifugio; corsi come se da ciò dipendesse la mia vita. Attraversai la città e quelle strade, un tempo così familiari e piene di vita, erano ora tetre e deserte; lo cercai ovunque, ma senza successo, finché non giunsi nella piazza principale: davanti a me non v'era traccia delle antiche case signorili, ma solo macerie.

Alla vista di un simile scenario mi bloccai: il mio respiro affannato e il battito accelerato del mio cuore, erano gli unici suoni udibili in quel silenzio carico di morte; le gambe mi si fecero di gelatina e caddi inerme al suolo come un burattino al quale sono stati tagliati i fili. Non so per quanto tempo rimasi accasciata sul selciato della piazza, ma dopo qualche minuto lo udii: il flebile grido d'aiuto proveniente da quella che una volta era una casa antica e maestosa. Mi rimisi in piedi e, obbligando le mie gambe a muoversi, mi diressi il più velocemente possibile verso le macerie e seguendo la voce lo trovai: era bloccato da grossi detriti, coperto di sangue e polvere che gli ingrigiva i capelli ramati, e tra le braccia aveva un bambino che piangeva silenziosamente; cercai subito di liberarli, ma riuscii solo a creare un varco per mettere in salvo il bimbo. Appena il piccolo fu al sicuro al mio fianco mi adoperai per far uscire anche lui, ma fui interrotta quando le sue labbra, ormai livide, pronunciarono, in un lieve sospiro, il mio nome; alzai lo sguardo e lo incatenai al suo: mi stava pregando di andare via, di non pensare a lui, ma solo a me e al bambino.

Io scossi la testa, ma lui con le ultime forze mi strinse la mano, come a darmi coraggio, mentre con gli occhi mi comunicava quei sentimenti che la morte incombente non gli permetteva di esprimere a parole; poi la sua mano ricadde al suolo.

Io rimasi lì, paralizzata dal dolore a guardare la luce abbandonare le sue iridi color nocciola, finché non divenni cieca per le lacrime che, come un fiume in piena, sgorgavano dai miei occhi; fu il pianto sommesso del bambino al mio fianco a scuotermi e indurmi ad alzarmi e, dopo aver preso in braccio il piccolo, mi avviai, con le lacrime che non cessavano di bagnarmi il volto e la morte nel cuore, verso il rifugio più vicino.

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