Prologo

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Era un pomeriggio d’autunno inoltrato quando Alexandra Eleonor Vilburn, donna dell’alta aristocrazia londinese, diede l’importantissimo compito a sua figlia Beatrice Amèlie Vilburn di sorvegliare il nonno, ormai in stadio di depressione avanzata, mentre nel frattempo lei sarebbe andata a fare shopping per la collezione estiva di Prada.
Li sistemò nel grande salotto di casa, voltando le spalle alla piccola bambina che la ammirava uscire nel suo azzurro completo di Valentino e nei suoi tacchetti bianchi di Miu Miu, che continuarono a risuonare sul pavimento di marmo anche quando ormai non ci fu piu’ traccia della sua ombra.
Il nonno di Beatrice, Francis Vilburn, un uomo ormai di età molto avanzata, sedeva su una sontuosa poltrona di velluto rosso a pochi metri di distanza da lei, che invece era china sulla sua scrivania e si stava dedicando alla stesura di una delle sue favole, spesso popolate da creature immaginarie o bizzarre.
Fuori pioveva forte, ma nonostante ciò gli spessi vetri d’epoca rendevano l’ambiente confortevole e ovattato.
La sensazione era quella di trovarsi in una sfera di vetro al riparo dalla tempesta.
Il nonno guardava affascinato il temporale in via di svolgimento, non aveva mai amato troppo la tranquillita’, era sempre stato un uomo attivo, ma questo prima della depressione, ora si limitava ad osservare ciò che accadeva al di fuori, come se lui non esistesse più.
Presto arrivarono anche i tuoni e i lampi a frammentare il cielo, come tanti piccoli pezzi di un puzzle.
Le sfumature di colore le ricordarono gli occhi della sua bella nipote a pochi metri di distanza da lui.
A parte il temporale, l’unica cosa a creare del suono in quell’ambiente era l’orologio da scrivania Abermann intervallato dai respiri della bambina dai capelli dorati.
Per Beatrice scrivere era come respirare, le veniva naturale.
Allo stesso tempo erano rare le occasioni in cui poteva concedersi questo lusso, dati i moltissimi compiti e le attività che la madre le propinava.
Suo padre, William Vilburn, era a capo di una illustre compagnia di estrazione petrolifera e passava gran parte del suo tempo in viaggio, motivo per cui non era mai stato presente per Beatrice, che viveva in una gabbia dorata per la maggior parte del suo tempo.
Sua madre, Eleonor Vilburn, aveva sempre ritenuto futile e insensata la sua passione per la scrittura in quanto, secondo il suo “umile” parere, la distoglieva dai veri compiti a cui una donna di classe avrebbe dovuto dedicarsi, come il canto, la danza classica, il Bon Ton, il ricamo e il portamento.
Ma la verità era un’altra e forse ancor più dolorosa da ammettere.
Eleonor era terrorizzata dalla luce che vedeva negli occhi di sua figlia quando scriveva o leggeva una sua storia, trovava ingiustificato un potenziale così alto racchiuso in quell’ esile corpicino, quando sapeva che il suo futuro sarebbe stato stare accanto ad un uomo e servirlo e riverirlo in tutto.
Era questo il modo in cui viveva una donna nel 1930.
Ovviamente sarebbe scontato dire che a lei era toccato esattamente quel destino ma la differenza tra le due era abissale, Beatrice era destinata al successo, aveva talento, lei no.
Aveva imparato ad essere impeccabile per mostrarsi migliore degli altri ma non possedeva alcuna scintilla dentro si sé, era solo una fredda donna di ghiaccio.
Il suo terrore verso la scrittura l’aveva portata ad essere opprimente e pressante con sua figlia, che nonostante ciò cercava di obbedirle e compiacerla più che poteva, eccellendo praticamente in qualsiasi cosa.
Credeva che questo sarebbe bastato per farsi amare da sua madre, ma col tempo avrebbe scoperto che non era così.
William invece preferiva ignorare del tutto la faccenda, come faceva per gran parte delle cose che non riguardavano quella nera e melmosa sostanza chiamata petrolio.
Ma torniamo ora a quel tempestoso pomeriggio d’autunno, nel quale sembrava che ogni cosa fosse al posto giusto e che niente potesse essere guastato, almeno finchè Beatrice non udì il rumore di un rantolo.
La sua penna restò bloccata a mezz’aria mentre una spiacevole sensazione le invase la bocca dello stomaco.
I suoi bellissimi occhi blu si spostarono a fissare la rossa poltrona di velluto rivolta verso la porta finestra di vetro bagnata dalla pioggia.
-Nonno stai bene?-
Non ricevendo risposta scese dalla sedia in legno, facendo attenzione a non cadere, e si incamminò verso di lui.
Suo nonno era sempre stato il suo compagno di giochi, dato che non le era permesso frequentare molte persone al di fuori della propria famiglia.
La portava al parco facendola volteggiare tra le braccia ridendo.
Negli ultimi tempi però era come spento.
I suoi occhi non le sorridevano più, non aveva la forza di alzarsi dal letto, figurarsi portarla a giocare in un parco.
Anche i capelli bianchi avevano perso la loro lucentezza.
Apparentemente nulla sembrava esser cambiato, indossava ancora i suoi eleganti completi blu appena stirati, ma la piccola sapeva che il suo nonnino le stava scivolando dalle dita senza che lei potesse fare nulla per prenderlo.
-Nonno?-
L’orologio che poco prima sembrava scandire un sereno pomeriggio ora inquinava l’ambiente con il suo incessante ticchettio, facendo aumentare l’ansia che già provava.
Con la sua manina sfioro il morbido bracciolo posizionandosi davanti al nonno.
Francis aveva gli occhi chiusi e stirati, la bocca impercettibilmente socchiusa, una composta e allo stesso tempo rilassata postura e i capelli bianchi e spenti ricadevano un po’ sulla poltrona.
Beatrice sorrise, suo nonno stava solo dormendo serenamente e lei si era preoccupata per niente.
Tuttavia osservandolo meglio qualcosa sembrò inquietarla.
Le spalle erano immobili, segno che non stava respirando e il suo corpo ora le appariva come paralizzato.
Decise che avrebbe provato a svegliarlo, cosa che non avrebbe mai fatto in altre circostanze e posiziono la sua manina su quella rugosa del nonno stringendola leggermente.
-Nonno svegliati…- Sussurrò dolcemente.
-Nonno sono qui- Ora la mano era corsa sull’avambraccio e lo stava scuotendo.
La voce era aumentata di un ottava e ora stava decisamente parlando con un tono allarmato.
Lo sguardo si spostò sul tavolino in vetro accanto alla poltrona su cui il nonno teneva i sonniferi e il bicchiere d’acqua, che ora era rovesciato a terra, sembrava presagire ciò che era accaduto.
Anche il barattolo delle compresse era vuoto.
Sposto di nuovo lo sguardo sul nonno, ‘Non poteva averlo fatto’ pensò mentre una sibilante voce si faceva spazio dentro di lei.
‘Controlla il nonno Beatrice’
‘Controlla il nonno Beatrice’
Cresceva di intensità ogni volta e ad un certo punto sembro quasi che volesse farle scoppiare la testa.
-NONNO!!!!!- Gridava.
-Nonno non puoi avermi abbandonata, mi resti solo tu-
-Nonno giochiamo insieme, ti va?-
-Nonno…- Singhiozzava.
Ma il vecchio signore non reagiva, ormai non restava più nulla dell’uomo che aveva conosciuto, era solo un involucro di carne vuoto.
La scena continuó per parecchio tempo finchè il dolore diventò talmente insopportabile che dovette allontanarsi da lui e le braccia le ricaddero lungo i fianchi.
Era colpa sua.
Questa oscura consapevolezza si fece strada dentro il suo sterno, strisciandole tra le costole, mozzandole il respiro.
‘Cosa avrebbe pensato sua madre di lei?’
‘Devi controllare tuo nonno Beatrice mentre prende le medicine’ questo le aveva detto e lei aveva fallito perché aveva preferito scrivere.
Si era offerta di aiutare il nonno a prenderle ma quando lui le aveva sorriso triste dicendole: “Non ti preoccupare piccola mia, continua pure a scrivere, sento che qualcosa di stupendo uscirà da lì” Beatrice non aveva ascoltato la sua coscienza e aveva impugnato la penna stilografica del nonno, segnando così la sua condanna.
La sua superficialità e disattenzione le avevano sempre creato problemi ma ora le avevano davvero giocato un tiro mancino e lei lo aveva preso dritto in faccia restando tramortita.
E ora, osservando la scrivania dopo poco fa era seduta, si sentì invadere da una rabbia cieca.
‘Che senso aveva una passione se le causava così tanta sofferenza?’
Fino ad allora la carta e la penna erano state le sue migliori amiche, le sue confidenti.
Ora le sembravano il nemico.
Erano coloro che l'avevano abbagliata distogliendola da ciò che aveva di veramente importante, il suo compagno di giochi, che giaceva sulla poltrona di fronte a lei.
Maledì sé stessa e la sua passione per averle portato la morte e da quel giorno la piccola non scrisse più.

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