Un sole ramato sta per eclissarsi. Mentre il sudore gli scivola dalla fronte come sangue annacquato, s'insinua nei vestiti, striscia fra i peli del petto, insegue la gravità... Al pari di dita invisibili, che lo solleticano per il puro piacere di farlo.
Sta scendendo la scalinata. A metà strada contrae le spalle, incolla le braccia ai fianchi, soffoca le ascelle, avvicina le gambe: in quella specie di pozzo inaccessibile alla luce che occupa quasi l'intera larghezza del passaggio, intravede una nube di creature minuscole, puntini fosforescenti che ronzano, che sfrigolano senza sosta, che gli impediscono di vedere al di là.
E un fetore, come di sterco.
Si tappa le narici e si affretta a raggiungere l'entrata. Sta per vomitare. Incespica, quindi cerca il corrimano, ma è dall'altra parte, arrugginito, sporco. Cade e sbatte la faccia per terra. Quando si rialza si tocca la fronte, non sanguina. Strano.
Davanti a lui un ingresso. In alto, un'insegna dove sono incisi uncini ripetuti, a volte sovrapposti, a volte intrecciati. Forse dei simboli, suppone.
Adesso è al cospetto dell'oscurità. Si ferma, si gira e guarda il cielo. È limpido: scie biancastre, lanose, e nuvole immobili che lo fanno somigliare a un pezzo di carta stropicciato, sembrano deriderlo. Perché presagisce che una volta entrato lì dentro non lo rivedrà più?
Però sente che deve tornare a casa e quello è il solo modo per farlo. Anche se lui, a dir la verità, ha la sensazione che una casa non ce l'abbia mai avuta, che la sua vita sia la fantasia di qualcun altro, che il corpo sia a lui estraneo. Chissà se quelli che lo precedono provano lo stesso; chissà qual è il luogo da cui proviene.
Sono pensieri esistenziali i suoi, che gli si ripetono in testa senza pace. Non li odia, però neppure li ama. Vede tutto, ma cosa c'è di strano in quel posto? Perché una parte di lui continua a sottrarsi all'ovvietà di ciò che vede, non la smette di chiudersi nelle sue turbe mentali e procede come tutti gli altri?
Forse, ormai a pochi gradini da quell'oscurità, è proprio l'oscurità a solleticargli l'intelletto?
Ricomincia a scendere. È dentro. Sul soffitto bagliori cianotici, penetranti. Odore di putrido, macchie torbide per terra. In esse è riuscito comunque a scrutare qualcosa. Realizza che un volto, no, lui non ce l'ha. A dire il vero neanche gli altri. E ora che ci pensa neppure ricorda il suo nome.
All'improvviso lo attira qualcosa. Drizza il capo all'in su, emette un verso roco — gli manca la bocca?
«Si prega di restare in riga, mantenete le distanze» è l'avviso che deduce dai rimbombi dietro le pareti di una voce lenta, metallica, contraddistinta da suoni estranei a quelli di un qualsiasi linguaggio umano.
Gli viene la voglia matta di guardare indietro, verso la luce esterna che ora non c'è più, verso il mondo dal quale proviene ma che ha dimenticato.
Il tunnel si stringe. Vede quello davanti a lui flettere la schiena, poi fa lo stesso e quello dopo di lui e quello dopo di lui ancora. Arriva un rumore, una specie di risucchio vorticoso e profondo. Poi un vento caldo che puzza di smog, di lubrificante.
Si volge verso le luci cianotiche, sono piene, gli fanno male gli occhi che non possiede più.
Mentre procede – a causa delle luci tiene lo sguardo basso, verso un sotto buio che non esiste – nota che di tanto in tanto il tunnel si raccoglie in piccoli spiazzi. Lì, intravede di sfuggita estremità di quelli che sembrano arti, una via di mezzo tra un piede e una mano.
Il cunicolo si stringe ancora. Le braccia raschiano contro le pareti, ne tasta le asperità; un liquido viscoso e di un odore pungente inizia a disgustarlo. E se presta attenzione può udire biascichi di tormento in una lingua sconosciuta, mescolati al rumore di qualcosa che si trascina incessantemente. Lui pare l'unico ad essersene accorto.
Per caso muove il capo verso sinistra dove l'altra parete è poco più distante. Nota una coppia di quei piedi-mani che ora ticchettano con le dita, i lati delle unghie che straripano dalla pelle e che crepitano prima di bloccarsi di colpo. E poi ricominciare.
Tintinnii di monete che precipitano a terra, ecco cosa gli ricordano.
Scompaiono le luci, il cunicolo si trasforma in una gola di buio. Le pareti flaccide, il soffitto schiacciato, come loro, mentre il vento caldo è una fiammata che li travolge quasi a illuderli che la pelle si stia incendiando. Intanto che gattonano, con il sudore fra le gambe, gocce invisibili che colano dai quei menti larghi e piatti e che si perdono nel buio sotto di loro.
Il tempo per riflettere non è più un suo diritto, perché gli istinti, quelli primordiali, lo cominciano ad assillare. Non ci sono riferimenti, non è a conoscenza di quando avrà fine quell'inattesa tortura. Sa solo che ha una sete disperata. E allora lui come altri tirano fuori la lingua — una piccola proboscide — e iniziano a leccare il liquido a terra e sulle pareti. Sa di ammoniaca, e piombo, e rame, anche se ignora cosa questi siano davvero. Se lo manda qua e là nella bocca, raspa e poi lo sputa: il sapore è orribile ma la sete irrefrenabile; e allora ricomincia e lecca con più decisione, con più disperazione, mentre i piedi-mani ticchettano con maggior eccitazione.
Eccitazione che ora ha nella testa e che lo accompagnerà fino a – Il mento sfiora il buio sotto di lui, una creatura pelosa gli corre vicino e gli solletica la guancia, un'altra gli passa in mezzo alle gambe e sguiscia via.
Poi il tunnel si apre in una galleria. Lui è spaesato e si ferma. Quello dietro dice qualcosa con una tale veemenza che pare si mangi le parole. Esce e si tira su, accorgendosi solo adesso che non ha più gambe né braccia, ma solo abbozzi di arti come quelli scorti nei cunicoli e con i quali fatica a tenersi in piedi.
E grugna. Ha tanto bisogno di pronunciare una qualsiasi parola umana, un suono che sia familiare!
Osserva come in quella enorme bocca senza fine giungano tunnel identici al suo da ogni parte, sopra e sotto, pieni di creature identiche a lui. Da lontano, in fondo alla bocca senza fine, sbuffa qualcosa in mezzo a quello che pare un fossato che la percorre per l'intera lunghezza. Una biglia cremisi lampeggia sul muso della cosa nel fossato, poi si sdoppia, si quadruplica; sferraglia nell'oscurità e si ferma.
Nuovi sbuffi e la fila ricomincia a camminare insieme alle altre. Vanno verso "la cosa che sbuffa". Alla fine apre quella che prima era una mano sinistra, lo fulmina il fugace ricordo della sua esistenza passata, e li riconosce: 5 cent.