Parte 26 - Lev, un figlio strappato

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Disclaimer: nelle ultime righe trovate un accenno a violenza senza dettagli.

Lev

I petali delle orchidee e della maracujia che adornavano la facciata della villa di Juan sono disseminati a terra, la fila di capanne che ospitavano gli omega sono mute e silenziose. Quando varco il cancello della villa con mia madre a fianco e Francisco alle spalle mi sento morire. Non ci sono volti famigliari, a eccezione di qualche domestica che per età e paura è rimasta fedele al governatore.

Il viaggio è stato desolante. Con il cuore stretto in una morsa di dolore ci siamo imbarcati fono a raggiungere l'isola. In porto sostavano le navi traditrici, quelle che hanno ucciso il mio compagno. Della locanda dove i ribelli hanno spesso tramato non è rimasta che l'insegna penzolante. Le strade stesse recano le tracce della guerra, le case distrutte, le macerie, le macchie di sangue lungo la strada. Ho visto carri carichi di ribelli che si dirigevano verso la fortezza.

Non oso domandare cosa ne è stato di Kal, di Nali o del dottor Sal. Spero che siano riusciti a scappare e che troveranno lontano da qui la felicità che meritano.

Mia madre mi stringe una mano, mentre Francisco non fa che rivolgermi il suo sguardo tronfio e lascivo al tempo stesso. Eppure il mio odore e la ma gravidanza dovrebbero allontanarlo, ma per lui non sono mai stati un problema.

Anche la villa è in disordine: vasi rotti a terra, arazzi strappati, divani rovesciati. Tutto ciò lo vedo alla luce dei candelabri con i quali Francisco ci guida nel caos.

«Farò sistemare tutto. La Corona spagnola sarà soddisfatta di come ho soffocato la rivolta, inoltre in patria hanno ben altro a cui pensare adesso», dice.

Nei giorni seguenti si dimostra di parola: riesce a impiegare nuove domestiche che si immergono nelle pulizie e presto la casa, almeno apparentemente, torna quella di prima. L'isola però non riesce più a trasmettermi il senso di pace che tanto amavo. Non riesco più a pensare al ruggire del mare, al concerto della pioggia , al garrire dei gabbiani, ai versi degli uccelli dai becchi variopinti, a tutto, senza che sul mio animo non cali un'ombra di dolore.

Francisco non si ferma molto tempo a casa, dice che deve sistemare molte questioni, dalla punizione dei ribelli alle ripercussioni economiche della rivolta. Le piantagioni sono prive di manodopera. Tiro un sospiro di sollievo, perché almeno per i primi tempi le mani di Francisco saranno lontane dal mio corpo.

Seduto sul divano del salone tento di concentrarmi sulla lettura di un libro. Il tempo passa sempre uguale. Anche quando Francisco non c'è mi controlla attraverso due guardie all'ingresso della villa. Non sarò mai più libero, ma ormai so che l'unica cosa a tenermi in vita è far nascere il frutto dell'amore tra me e Juan. Poi... poi non mi importerà di nulla.

Mia madre è seduta poco lontano da me, si impegna nel ricamo e nella preparazione di una coperta per il bambino.

Le piogge inondano di nuovo la nostra terra, ma il ricordo di quanto un tempo mi hanno reso felice non è che sale sulle ferite che oggi mi dilaniano l'animo. Mi accarezzo il ventre. Il pensiero va sempre a lui, a Juan, che l'esplosione traditrice ha gettato in mare, lontano, sottraendolo per sempre alle mie braccia.

Mia madre solleva lo sguardo. «Quando lo terrai tra le braccia andrà meglio», dice.

Illusa. Non sa che Francisco non mi permetterà mai di tenerlo. L'erede di Vieln e della nobiltà spagnola. No, mai. Lo so, e questo mi strazia. Qualche volta penso di scrivere ai suoi nonni paterni, ma poi non riesco a trovare il coraggio di sollevare la penna e di imprimere le parole sulla carta. Perché hanno mandato Juan qui? Perché quando lui ha chiesto uomini non glieli hanno mandati subito? Adesso la situazione sarebbe diversa.

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