42h alla Catastrofe

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"Ignoro
se la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l'innocenza é una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me,
di te tutto conosco, tutto
ignoro."

(Eugenio Montale)

(Eugenio Montale)

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III

C'era una qualche dolcezza, nel sabato, che non mi ero mai saputa spiegare.

Era morbido come nuvola, fatto di respiri caldi, the e sbadigli esausti di un'altra settimana che andava in chiusa.

Tendevo a essere mattiniera: i giorni in cui non avevo università amavo andare a correre all'alba, così fu esattamente quello che feci.

Il sole era ancora pallido e l'aria frizzava come sidro, i miei piedi a battere sul selciato erano l'unico rumore, come un ticchettio confortevole e costante.

Le cuffie mi penzolavano dal collo, l'ultima canzone della playlist solo un ronzio confuso a disperdersi nell'aria mentre già ripercorrevo il tragitto per tornare a casa.

Mi sentivo madida di sudore e col cuore a pulsarmi nella trachea, però non rallentavo. Dopotutto è così che si costruisce resistenza, persistendo quando ti viene da mollare.

E allora più sentivo le gambe cedere, più le spingevo avanti, più sentivo il respiro corto, più respiravo. Più mi veniva di fermarmi, di schiantarmi al suolo, più mi costringevo a non farlo.

Persi la cognizione del tempo come mio solito, solo uno sguardo distratto all'orologio che portavo sempre al polso mi informò che era già trascorsa mezz'ora.

Sospirai e feci dietro front, ripercorrendo la strada verso casa. Quando uscivo a correre rimanevo sempre parallela al boschetto di fronte casa che si allungava per chilometri. Non mi addentravo mai, semplicemente ne costeggiavo il perimetro.

Quando rientrai in casa sciolsi dal codino la chioma indomita di ricci, li sentii ricadermi sulle spalle ancora in tensione.

Tolsi l'MP3 dal marsupio da corsa e lo poggiai sul ripiano dell'entrata insieme alle cuffie. Gli lanciai un'occhiata pensierosa, indecisa per un istante... poi lo lasciai lì.

«Sei a casa?»

La voce di papà mi raggiunse dalla cucina, così percorsi il piccolo corridoio e svoltai nella stanza ancora in penombra, ma accogliente. L'odore di caffè mi solleticò le narici, sospingendomi verso la caraffa sul ripiano come un soldatino obbediente – chi dice che la caffeina non è una droga, mente.

Affiancai papà, alzai gli occhi su di lui mentre già mi versavo il caffè nella tazza che aveva poggiato per me sul tavolo.

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