Arrivare - incipit

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Gi aveva nascosto le chiavi dell'appartamento in un'aiuola di fronte al portone, sotto un'erbaccia.
L'avevano assunto come cocinero in un localetto gestito da italiani che si chiamava ''La Mona''.
Non staccava quasi mai prima delle tre.
La sua non era la camera più sudicia e stretta che avessi mai visto, ma era comunque molto angusta. Ne conservo l'odore appiccicoso del sudore che ristagna e si mescola all'afa di fine agosto.
Gli odori non li sento dalla nascita. Nemmeno quelli così pungenti che vi hanno fatto lacrimare gli occhi mentre li sentivate. Alcuni molto sgradevoli però sembrano restare sulle dita; ungere i capelli. C'era un banchetto scassato con un cumulo di vestiti sporchi appallottolati sopra. Le confezioni oleose dei fast-food e una fotografia di sua madre.
Le briciole di tabacco e di erba tritata sono saltate sul letto come uno sciame di pulci quando mi sono seduto. Ho tirato fuori dalle tasche il cellulare, il passaporto, il biglietto aereo stropicciato.
La mamma di Gi era giovane nella foto. Mi sono acceso una sigaretta e sono rimasto lì seduto per un po'. Dalla finestra socchiusa filtrava la luce del sole insieme agli strilli. Delle bambine stavano giocando giù in strada, avevano gli anelli d'oro alle orecchie e alcune di loro erano scalze. Quel quartiere sembrava così così, le case erano basse e diroccate e c'erano zingari ovunque, ma non era l'ultima fermata. Avevo preso un taxi fuori dall'aeroporto per arrivare in centro. Su un ponte il tassista mi ha fatto cenno di guardare fuori dal finestrino. Sul letto del fiume estinto avevano fatto crescere un parco gigantesco, mitico, che attraversava tutta la città come un serpente di alberi e piste ciclabili. Da domani sarei andato ad abitare in un appartamento vicino a quel parco, con altri studenti. Lì i palazzi erano alti e massicci, simili a edifici popolari. Invece erano abitati da ragazzi che venivano da tutto il mondo per studiare e godersela. Ovunque c'erano bar. Da ogni angolo esplodevano risate. Era il posto giusto, certe cose uno se le sente. Sarei entrato a piedi pari nel delirio ma con una moderazione adulta, senza perdere di vista gli obiettivi universitari. Non avrei esagerato con la roba pesante e avrei conosciuto un sacco di ragazze.
Quando è entrato in casa Gi era ricoperto di sudore, gocciolava tutto. Trascinava la bicicletta che si era comprato al mercato dei gitani. Lo montavano tutte le domeniche sotto allo stadio e vendevano la refurtiva della settimana. Sono scoppiato a ridere: non l'avevo mai visto così ossuto, pallido e trasandato. Sembrava fosse tornato da un campo di concentramento invece che da un ristorante. Ha scimmiottato qualcosa in spagnolo ed è fluttuato sulle sue gambe filiformi fino al frigorifero. Dentro c'erano una bottiglia di gazzosa evaporata, del ketchup e dei rullini fotografici.
''Il caldo li rovina'' ha detto.
Si è seduto sul divano e ha cominciato a tritare un ciumo di erba. Gi è la persona che conosco che consuma più canne in assoluto. Fuma in continuazione, ogni volta che può, e mai una volta che l'ho visto alterato o con gli occhi fatti di sangue. Non faccio quasi mai caso ai tratti che rendono oggettivamente bello un maschio, ma credo che Gi li abbia. Anche adesso che sono celati dalla magrezza e dai capelli rasati, il suo viso smunto mantiene in sottofondo dei lineamenti segnati dall'armonia.
Ha continuato a tagliuzzare meticolosamente l'erba con le unghie per alcuni minuti. Poi mi ha chiesto di costruirgli un filtro con il pacchetto delle sigarette. D'accordo, ho sbuffato. Non vedevo l'ora di uscire di casa, passare da uno spaccia e poi fiondarmi in un bar a incontrare un po' di nuove facce. Lontano da Genova, dalle sue stradine monotone e limitate. Lontano dai boys e da casa mia, dal mio quartiere alienato e dalle solite teste di cazzo che rappresentavano il mio opposto.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 29, 2020 ⏰

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