29. Jäger - cacciatore

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Finalmente avverto lo scrosciare dell'acqua sulla pelle che, insieme alle impurità, porta via anche una parte di dolore. Quello fisico, perlomeno. Mi ha sorpresa l'aver trovato il soffione della doccia, piuttosto che una tinozza con dell'acqua riscaldata; dev'esser stato lui ad aver apportato qualche modifica... sì, qui deve esserci proprio il suo zampino.

Comunque ho avuto ben poco tempo per squadrare gli arredi: sono stata io ad essermi precipitata nel bagno appena mi è stato possibile; io, senza nemmeno aver ricevuto pressioni da parte di Reiner.

Avvertivo l'impellente bisogno di lavarmi, eppure, adesso che sono qui, non mi sento più pulita.

Finché permango con la testa china, le braccia ferme, le fitte si affievoliscono, ma quando mi tocca spostarmi, per un qualsiasi movimento, debbo azzannarmi le labbra dall'interno per non gridare.

Sulle scorticature persino il sapone francese brucia.

Scosto la tenda bianca, sgusciando fuori dal box che deve esser sorto - senza neppure troppe pretese - sullo scolo preesistente. È così doloroso... il mio primo pensiero però, non va né al male, né al freddo.

Reiner ha raccolto le mie cose, prima di lasciare la casa di Schneider. Devo assolutamente controllare che ci sia tutto.

L'ho pregato di uscire, per cambiarmi, e mi sono fiondata sulla valigia, palpando i vestiti in cerca del mio cellulare. Lo trovo, per mia grande fortuna; ne riconosco chiaramente la forma e decido di non spostarlo. La scelta più saggia sarebbe distruggerlo per evitare che cada in mani sbagliate e ci medito anche su, ma poi ci rifletto: con che cosa potrei colpirlo? Come giustificherei il rumore? Quando potrei andare a seppellire i pezzi nel bosco?

Non mi è possibile, devo riconoscere.

Per ora, quantomeno.

«Puoi entrare» lo chiamo, avvolta nell'asciugamano. In tempi non sospetti non lo avrei mai accettato, mentre adesso il fatto di indossare la biancheria e poco più non mi disturba più come prima.

Mi hanno vista cani e porci; la vergogna l'ho dovuta abbandonare.

«Hai bisogno di qualcos'altro?» Mi chiede, con un'espressione pensierosa e mortificata. Sembra che qualcuno gli stia correndo appresso con un'accetta. Non ha davvero motivo per apparire così ansioso; per me è inspiegabile, a meno che non nasconda qualcosa.

«Ma che hai?» Lo richiamo, dopo che il suo sguardo, ancora una volta, si era soffermato sulle nocche violacee.

«No, non lo faccio per compassione. Sto facendo ammenda per i miei peccati. Perdonami, perché ti ho mentito... è stato l'odio che nutro per Schneider ad avermi spinto ad allontanarti da lui. Ci siamo scontrati nel trentanove, in Polonia, quando lui ancora faceva parte delle Einsatzgruppen. Era così borioso, così superbo... trattava noi dello Heer, i veri combattenti tedeschi, con sufficienza, come suoi subordinati. Si era sempre dichiarato invulnerabile e persino a me era parso che punti deboli non ne avesse, ma poi... poi sei arrivata tu. So cosa stai pensando; che fosse una cosa infantile, che non fosse una valida scusante per averti coinvolta in quella che era, alla fine, una questione privata. E hai ragione. Ho cercato di fargli uno sgarro; ho gioito del crollo di nervi che ha avuto e che l'ha messo in ridicolo davanti ai suoi sottoposti, senza pensare alla possibili ripercussioni. Il mio egoismo ti avrebbe uccisa» ammette, infine, guardandomi negli occhi.

Non trova ciò che cerca; né conferme e né smentite. L'aspetto più spaventoso è che non c'è rabbia in me; non di certo comprensione, ma nemmeno odio. Forse me lo aspettavo, qualcosa avevo capito da me, o forse sono talmente abituata alle delusioni da non soffrirne più.

Unsere Schatten - Le nostre ombreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora