29. Cappelli di paglia & confetture

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Passione: che parola singolare, così onnicomprensiva. Unica e al contempo ambigua, ricca di significato e comunque incomprensibile. Una parola, un colore: ecco, per esempio, per me la passione non era mai stata rossa. L'avrei potuta definire blu, un blu elettrico, freddo, vibrante; quel colore che dà scarica, impeto, un colore violento. La passione era sempre stato un concetto relativo per me: in fondo, chi poteva decidere, per me, se qualcosa fosse passionale, o meno, se dovessi vivere qualcosa con passione, oppure no. Quando da piccola mi chiedevano quali fossero le mie passioni, avrei potuto fare un elenco infinito, forse perché non conoscevo il reale significato di passione; ma crescendo, era tutta un'altra storia. Ai 22 anni mi era difficile definire qualcosa una mia passione: non che fossi certa di cosa la passione fosse realmente, ma era pur sempre vero che la passione fosse un concetto molto relativo e soggettivo e che quand'anche qualcuno avesse una passione, quella non doveva essere universale. Avevo pensato che la letteratura fosse la mia passione, ma non amavo tutto della letteratura; avevo pensato alla fotografia, del resto fotografare mi dava grandi soddisfazioni e gioie, ma al punto da sentirlo dentro? Pungente, forte, non penso avrei potuto definirlo così.

Con le relazioni mi ero accorta che la passione è davvero unica, che puoi sentirla dentro, ma non è perfetta; che è calda, ma può anche non bruciare, che le passioni, quelle vere, le riconosci senza che abbiano un'etichetta. Il mio primo amore, ad esempio, non l'avevo riconosciuto: non ne sapevo niente di passioni e mi ero accorta di essere appassionata di lui solo quando l'avevo lasciato; poi avevo fatto l'errore, dopo David, di pensare che andare a letto con tante persone diverse potesse farmi conoscere tante passioni, e mi ero invece ritrovata vuota, insoddisfatta e con la testa fin troppo confusa. Ero certa di non voler relazioni, di non averne bisogno, di saper badare a me stessa, e in effetti sapevo farlo; ma avevo anche frainteso le relazioni. Avevo sempre pensato che le relazioni fossero sussistenza, necessità, bisogno: io non necessitavo nessuno, non avevo bisogno di nessuno. Ma volere bene, volerlo davvero, volere una persona a cui dare bene forse non era una pretesa troppo alta, né una richiesta troppo insensata. Con Delilah e Rose ero riuscita a farlo abbastanza bene, tranne che nell'ultimo periodo in cui le avevo assolutamente ignorate: eppure noi avevamo uno strano modo di dimostrarcelo quel bene profondo che ci univa.

"Hai intenzione di contemplare quelle pagine ancora per molto?" mi chiese Harry, spostando appena gli occhiali da sole dal naso, guardando al cielo, come se non parlasse con me.

"C'è qualcosa che ancora non mi convince" mi strinsi nelle spalle, incurvate, mentre con la matita fra l'indice e il medio, e la punta alle labbra, contemplavo il saggio di letteratura fra le gambe, incrociate. Il vento lo smosse appena, facendo girare pagina, mentre qualche granello di sabbia si infilava fra una parola e un'altra.

Sollevai lo sguardo, fissando l'uomo accanto a me che giaceva sull'asciugamano, leggendo un libro dalla copertina distrutta dal tempo.

"Non mi sembra che tu non sia ugualmente distratto" rimbeccai, cogliendo il titolo del romanzo: Love is a mixtape; chiusi appena gli occhi, lasciandomi cullare dal rumore delle onde del mare, troppo incerte per concederci un bagno, ma troppo indulgenti per non regalarci qualche schizzo d'acqua.

"Mi sono adeguato" spostò il libro, che gli aveva coperto il volto dal mio sguardo "El, è la quarta volta che lo ricontrolli, smettila, sei pignola" cercò di togliermi la matita dalle mani, mentre io tentavo di tenerla, inclinandomi appena su di lui.

"Si dice meticolosa" lo corressi, riprendendomi la matita, e ritornando al manoscritto "e ci tengo, il professor Greene potrebbe essere il mio relatore, il prossimo semestre" sì, <<consuetudine>> era più adatto di <<abitudine>>

Quando non ottenni risposta, mi girai appena verso di lui, trovandolo a sorridermi sardonico da sotto i suoi occhiali da sole, ora steso sulla spalla, mentre prendeva il suo cappello di paglia e lo metteva a coprirsi il viso dai pochi raggi di sole. Era bello, bello da dare fiato, invece che toglierlo; bello come la vita, come le emozioni, come le passioni; bello come la verità. Erano passati solo due giorni da quella nostre notte di confessioni, di mie confessioni, ed era stato in grado di sorpassare tutto, di non farmi sentire inadatta, sbagliata o in ritardo. Mi aveva rincuorata, apprezzata e spronata, e nel frattempo aveva considerevolmente, in quel brevissimo tempo, rafforzato il nostro rapporto: un rapporto peculiare, strano sin dall'inizio, relativo e soggettivo. Non si era lasciato spaventare, né allontanare; non mi aveva dato modo di dubitare neanche un attimo, per quanto sapessi che quelle mie parole l'avessero profondamente toccato. Lo vedevo dal modo leggero in cui mi sfiorava, dai baci volati sulla fronte che aveva un sapore di rassicurazione.

CANTHARIDE- [H.S. AU]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora