Capitolo 3.2: L'aquilone

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Sono in mare da parecchi giorni, forse mesi, oppure anni

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Sono in mare da parecchi giorni, forse mesi, oppure anni. Non lo so più. Contare i giorni è difficile. I giorni sono difficili da quando Lei mi ha mandato via dalla sua vita. Sono solo in mezzo a queste acque. Solo in questo mondo, nonostante abbia una famiglia. Ma è cosi che mi sento. Solo. Mi chiedo e richiedo se Lei stia bene, e ogni volta la vedo, la immagino sempre più vicina all'uomo che con il suo inganno, ne sono certo, me l'ha portata via. Questo pensiero non mi da pace. Lei era tutto. Lei era il mio mare, le mie montagne. Lei era il mio cielo dove io, come un Albatros, mi libravo in Lei. E di Lei, se non fosse accaduto tutto questo, non ne avrei avuto mai abbastanza.

Questo pensiero mi opprime il cuore. Il pensiero di non poterla rivedere, mi uccide ogni giorno sempre di più. Sento di morire di una morte lenta e in agonia. Allah, se proprio vuoi che soffra, cancellala per sempre dal mio cuore.

No. Non avrei mai potuto vivere in un mondo dove io, Can Divit, avrei potuto non ricordarmi più di Lei. Guardo verso la Genova, e osservo i tanti nodi che ho fatto giorno dopo giorno. «Sanem..». Basta il suo nome. Bastava sempre e solo il suo nome per sentirmi bene. Ora invece mi procura solo un gran dolore, da cui non riesco a scappare. Mi desto dai miei pensieri tormentati dal dolore, e inserisco il pilota automatico. Caffe.

Sento la necessità di ingerire qualcosa per colmare il vuoto che ho dentro. Ma so già che non è quel vuoto che andrò a colmare. Scendo sottocoperta, apro la dispensa e mi do da fare. Non ho mai amato il caffè, ma so che se dovessi preparare del tè, ogni pensiero vorticherebbe nella Sua direzione. E mentre penso a questo, urto con la mano la tazzina colma di caffè appena versato, e mi finisce addosso. Allah Allah, non mi riconosco più.

Vado in quella che è ormai la mia camera, per cercare di rimettermi in sesto e cambiarmi gli abiti macchiati. Tolgo la maglietta, e vado in bagno per darmi una ripulita. Uscendo, passo davanti lo specchio. Non vedevo il mio aspetto da troppo tempo e quello che vedo, è un Can diverso. Capelli più lunghi, barba incolta e ispida. Ma quello che mi inquieta maggiormente sono i miei occhi. Vuoti e spenti, senza vita. Mi rivesto alla svelta e vado via, scappo da quell'immagine di me riflessa. Pensa ad altro Can. Pensa ad altro!

Cerco di convincermi di non pensare al male che sento. Torno al fornello dove ho rovesciato il caffè. Guardo il disastro che ho fatto, quella chiazza scura sul pavimento e con la mente torno ad un momento felice. In agenzia. Lei, indaffarata al banco, mentre trafficava tra tazze e contenitori. Ed io che pur di starle vicino, provo a versarmi da bere, facendo disastri e rovesciando tutto.

"«Signor Can! Guardi! Cosa sta combinando? Lo sa che tocca a me pulire tutto questo disastro ora? Basta, ne ho veramente abbastanza. Da ora in poi, non pulirò più nulla!»"

Penso al suo viso accigliato di una rabbia che non c'è mai stata. E rido tristemente, ripensando alle sue espressione buffe. Una bambina sognatrice arrabbiata.. Ah Sanem, mi manchi. Scuoto la testa e torno sul ponte. Mi siedo al posto di comando, disinserisco il pilota automatico, e traccio la rotta, per la costa più vicina: L'Albania.

GOCCE D'AMBRA (SOSPESA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora