30. Zweck - scopo

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Senza Reiner a guardarmi le spalle, mi sento spaesata, persa, come se Dante, a un tratto, si fosse ritrovato senza più Virgilio a fargli da guida attraverso l'Inferno e, quindi, avesse proceduto da solo, allo sbaraglio, alla ricerca di un dannato in particolare, conoscendone il girone e poco più.

Fortunatamente, mi ricordo ancora il numero di matricola e potrò comunicarlo a questo tedesco, qualora non mi fosse possibile identificarlo da sola. Ma suppongo che se anche riuscissi a riconoscerlo a colpo d'occhio, non mi converrebbe andargli subito incontro. Devo dare l'idea di non sapere chi sia o, perlomeno, che non mi interessi... Sì, credo sia questa la scelta migliore.

Non so nemmeno cosa Reiner abbia riferito a quest'uomo; lui non ha spiccicato parola e neanche io mi sono sbilanciata. Non so se abbia in mente quale sia il mio obiettivo, ma ho il presentimento che saprebbe bene come raggiungerlo.

Pensavo che il ritrovarmi la baracca a due passi dal futuro settore BII mi avrebbe agevolata, tuttavia la posizione gioca un ruolo secondario in questo caso, perché quest'ala di campo è quasi deserta.

Intanto, a poco a poco, il cielo volge all'imbrunire, tingendosi di un caldo color pesca e l'orario del pasto si avvicina, lento ma inevitabile.

L'SS mi segue di malavoglia, calciando un ciottolo in una pozzanghera vasta quanto un piccolo lago. Non era quest'acqua alla radice dell'epidemia, nonostante sia io che Ariel ci fossimo trovati d'accordo sulla fonte. Sono stati i pidocchi: degli organismi così piccoli sono costati la vita a decine e decine di persone...

Impensabile per me, che da piccola me l'ero cavata con un bagno d'aceto.

L'uomo al mio fianco scuote la testa insistentemente, come se il fatto di dover badare a una ragazzina fosse un compito ingrato e degradante. Si capiva che avrebbe dovuto staccare a momenti, prima che Reiner infierisse... ma che cosa ne posso io?

«È proprio là.» Scandisco, in tedesco, indicando il Block diciannove, completamente disabitato.

Il pensiero di dover vedere quelle persone mi fa rizzare i capelli: sono umani ridotti pelle e ossa ma, da piccola, ne avevo una paura folle... Credevo fossero loro le creature mutanti assetate di sangue che chiamano "zombie" e, all'epoca, mi coprivo gli occhi ogni volta che mi veniva mostrata una di quelle fotografie.

Adesso che sono cresciuta e che conosco la verità, vorrei riuscire a guardarli negli occhi e fargli capire che non tutti sono sordi alle loro urla, che non tutti si sono dimenticati di loro.

«Sono ancora in miniera. Aspetta che ritornino.» Stenta a rivolgermi la parola, tanto che appoggia la schiena contro le assi della baracca, guardandosi le unghie con fare annoiato.

E benché lui sia profondamente, mortalmente tediato, senz'altro io sono un'attrazione per coloro che non mi avevano mai vista in assenza di Schneider - o in generale -. Chi un'occhiata stranita, chi un commento a bassa voce, chi dalla torretta di sorveglianza ha deposto la mitragliatrice per afferrare il binocolo, tutti si sono soffermati un attimo di più sulla civile femmina e straniera che, ahimè, gli aveva fatto credere d'aver bevuto un po' troppo durante il pranzo.

Sì, io esisto, e sono proprio qui.

In realtà, non sono solo tedeschi; qualcuno c'è nei dintorni di qualche altro Blocks adiacente, ma l'infittirsi della pioggia, che fino a pochi minuti fa era leggera e innocua, mi ha offuscato la visuale.

La terra è umida; la polvere si è trasformata in una melma appiccicosa che rallenta il lavoro dei prigionieri, rendendolo ancora più arduo.

Trovo il coraggio di guardarmi intorno e vedo un gruppo di Häftlinge incaricati di rimuovere i cadaveri dei loro compagni suicidi dalle palizzate metalliche.

Unsere Schatten - Le nostre ombreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora