Mi ritrovo a provare un po' di paura davanti a ciò che sto per fare. Sono passati sei lunghi anni da quando l'ho visto l'ultima volta, da quando la polizia l'ha portato via da casa, e me lo sono visto passare davanti con il capo chino e le mani ammanettate dietro la schiena. È da anni che aspetto questo momento, tuttavia non riesco a fermare il tremito che mi percuote dalla testa ai piedi, non riesco a non pensare che forse, in fondo, non è proprio una buona idea quella che mi è venuta.
La guardia apre la porta che dà nella sala delle visite. Lotto con tutta me stessa, lotto con il forte desiderio che ho di voltarmi e fare dietrofront per non entrare, per non doverlo vedere nelle condizioni pietose in cui so che lo troverò. Sento il freddo sgusciarmi dentro, strisciando nelle ossa e ghiacciare ogni parte del mio corpo e immobilozzarlo. Sono diventata una statua. Sto davanti alla porta e non ho il coraggio di fare il passo avanti che mi separa dalla stanza, non ho il coraggio di trovarmi davanti a quell'uomo che ho aspettato sei anni di vedere. Come sarà diventato? Sarà freddo e distaccato, oppure sarà felice di vedermi e mi accoglierà come si accoglie come una vecchia amica? In realtà, non siamo mai stati molto intimi, in passato, e quindi non vedo perchè dovrebbe trattarmi con familiarità.
Respiro piano. Inutile porsi altre domande, stare qui a ragionare su interrogativi su cui avrò risposta entro breve: alla fine mi decido e metto piede nella stanza, a testa china quasi stessi caricando per abbattere una barriera inesistente. Quando sono dentro, la porta si chiude alle mie spalle con in lieve clangore che mi fa sobbalzare; adesso sono costretta ad alzare lo sguardo, se non altro per cercarlo, per vedere se lui è effettivamente lì che mi aspetta. Per un attimo chiudo semplicemente gli occhi e prendo fiato, devo preparami all'eventualità di rimanere delusa, poi li riapro piano e alzo la testa, scandagliando con il fiato mozzato la stanza. È grande, la sala delle visite, molto più ampia di quanto mi fossi immaginata, disseminata di una dozzina di tavoli circondati da panche dove - suppongo - si siedono i carcerati e le rispettive famiglie o altro. Sono tutti vuoti. Tutti, tranne uno. È il tavolo al centro della stanza, ed è occupato da un solo uomo. É giovane e messo meglio di quanto pensassi, mi guarda con uno stupore che mai gli ho visto negli occhi; ho paura di muovere anche un solo passo perchè credo di poter crollare, mi sento le gambe molli e il cuore che mi scoppia di un'emozione che non so ben definire. Forse è felicità, forse no.
Lo vedo che sorride. Lo fa senza neanche accorgersene: le labbra gli si piegano involontariamente in un sorriso di pura gioia, e il mio cuore comincia a palpitare come un matto contro il torace, l'aria si fa più fresca e mi sembra di avere la testa più leggera. È a quel punto che riesco a muovermi, accorgendomi che sto sprecando una gran quantità di tempo. Mi avvicino timidamente al tavolo, anch'io con un sorriso sincero sulle labbra; sono veramente stupita di vederlo felice, probabilmente non riceve molte visite, dato che la sua famiglia l'ha rinnegato. Non so perché, non ne capisco il motivo, ma io continuo a pensare a lui. A volte è doloroso, a volte mi risulta facile come respirare, altre mi fa salire la rabbia tanto che devo togliermi il pensiero dalla testa se no impazzisco, ma comunque ci penso e ci ripenso, finchè non mi accorgo che devo tornare coi piedi per terra.
Mi siedo davanti a lui, cercando di non sembrare troppo goffa quando scavalco la panca con le gambe. Lui continua ad osservarmi, gli occhi che gli brillano e il sorriso che non abbandona le labbra. E pensare che, per un breve attimo, ho pensato di non entrare, ho pensato di privarmi di questa bellissima visione che ho davanti, che mi fa sentire più viva che mai.
-Ciao- sussurro, guardandolo da dietro i ciuffi di capelli che mi ricadono davanti agli occhi. Improvvisamente mi sento a disagio, perché non so che cosa dire, in verità sono venuta qui senza un motivo vero e proprio. Tossicchio, schiarendomi la voce e torcendomi nervosamente le mani. Come stai?- credo sia una domanda piuttosto stupida da fare a uno che è in carcere, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente, sono le prime parole che mi sono rotolate fuori dalle labbra. Quando mi accorgo di essere stata piuttosto stupida, sgrano gli occhi e li punto nei suoi, azzurri come me li ricordavo.
-Bene- lo sento dire, e ha una voce fantastica, proprio come quella che ho conservato nella mia mente. Credo di essere arrossita, perché improvvisamente sento le guance pizzicare e poi il viso mi va in fiamme. -È da tanto che non parlo con delle mie vecchie conoscenze- sospira, e sembra davvero felice di questa novità, non ci devono essere molti colpi di scena nella vita carceraria.
Annuisco brevemente. -Ho pensato tante volte di venirti a trovare- gli rivelo, sorprendendomi. Nemmeno a me stessa l'avevo mai ammesso: mi ero solo concessa piccoli film mentali in cui lui tornava a casa, e in cui ci attendeva una vita insieme. Insomma, uno di quei film mentali in cui tutto è perfetto, peccato che nella realtà lui sia in carcere, io a chilometri di distanza e che non ci conosciamo così bene come vorrei. Eppure sono qui. Io, tra tutti i suoi parenti, amici e conoscenti, sono qui e gli sto parlando come se non avessimo mai fatto altro. Deve proprio mancargli casa, penso mestamente, altrimenti non si abbasserebbe a tanto da parlarmi.
Deve notare il mio improvviso cambio d'umore, perché subito mi chiede: -E tu?- lo guardo e corrugo le sopracciglia, interrogativamente. Sono un po' dura di comprendonio, dopo essere caduta dalle nuvole. -Tu come stai?- ripete, sorridendo gentilmente. Un sorriso a cui non farò mai l'abitudine.
-Bene, bene ovviamente- ricambio il sorriso, continuando a torcermi le dita. Sono così nervosa... mi prende una mano, facendomi sobbalzare per l'improvviso contatto con quelle mani ruvide e calde. I nostri occhi si incontrano e sento le farfalle nello stomaco. Ha gli occhi azzurri come il cielo in primavera, mentre il suo sorriso assomiglia a un fiore appena sbocciato: possiedono entrambi la stessa delicatezza, la medesima fragilità. Lo lascio fare, mentre accarezza con il pollice il dorso della mia mano. Rabbrividisco di piacere e mi sento un po' in imbarazzo, sotto quello sguardo incredibilmente felice.
-Raccontami un po' cosa succede a casa- mi chiede, spostando lo sguardo sulla mia mano, inerme nella sua. So che cosa intende con "casa", so cosa vuole sentirsi dire.
Sospiro piano e abbasso lo sguardo anch'io. Non riesco a guardare quel viso tanto conosciuto e, allo stesso tempo, sconosciuto; è da sei anni che non lo vedo, sei lunghi anni passati a fantasticare su come sarebbe stato il nostro primo incontro dopo il "fattaccio". Io ho sempre creduto a lui, non ho mai creduto a nessun altro, solo alle sue parole sincere e alle sue urla di rabbia. Sono sempre stata dalla sua parte e ancora lo sono.
-Stanno tutti bene, Ric- smette un attimo di accarezzarmi la mano, lo sento che espira e mi accorgo che ha trattenuto il fiato. Sul serio, non capisco come possa ancora importargli qualcosa di loro, dopo che gli hanno voltato le spalle in un modo talmente brutale. Stringo le labbra in una smorfia. -Stanno davvero da Dio- lo sento che sussulta. Lo sento perchè la mano che stringe la mia sobbalza, poi la sensazione bruciante dei suoi occhi su di me mi fa alzare la testa. Mi sento morire, quando mi accorgo con quanta severità mi sta guardando. Leggo la sua disapprovazione e mi sento male, perchè so di essere scesa a una conclusione troppo affrettata nei confronti di persone che a malapena conosco. Ma, in fin dei conti, so che ho ragione: quelle persone che dovrebbero costituire la sua famiglia, non gli hanno fatto visita per una e una sola ragione. Non hanno mai avuto fiducia in lui. Ho letto il loro orrore, molto prima di leggere il mio amore. Ho imparato il loro odio, molto prima di assimilare il mio affetto. Lui ancora ci spera, ma io ho visto e mi basta.