33. To be or not to be

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La gamba continua a muoversi ad un ritmo irrefrenabile sotto al tavolo, scontrandosi ripetutamente contro la superficie ambrata.
Cerco di riprendere aria, respirando profondamente.

La nausea di poche ore fa non è ancora passata.
Forse mi sono presa l'influenza.

Duncan spunta dal corridoio stretto, raggiungendomi in cucina. Non bada a me, si dirige immediatamente verso la caffettiera vuota.
Lo osservo con attenzione. Sembra estremamente calmo, ma in fondo so che sta per crollare. Ha bisogno di parlare con qualcuno... di dirlo ad alta voce.

Non nego di essere rimasta chiusa in macchina per parecchio prima di entrare in casa.
Ho dovuto pensare bene a cosa dire, a come calmarlo e mi sono anche fatta scivolare addosso tutto quello che c'è stato con Scott.
Quel litigio, i suoi modi di fare, le parole aspre, mi sono rimaste addosso, ronzando come calabroni attorno alla mia mente.

In continuazione.

Non sono pronta a lasciarlo andare, a dirgli addio. Il futuro mi spaventa, le settimane che prevedono la mia partenza sembrano rincorrermi anche nei sogni, minacciando di arrendermi, di rinunciare a lui.

A noi .

Ma ora, mio fratello va sopra a tutto, è la cosa più importante. Non ho la minima idea di come si possa sentire. Oggi è stata una giornata difficile per tutti. Spine affilate ci sono cadute addosso, sotto all'aspetto di morbide rose delicate.
Ogni istante ci è sembrato eterno, tormentato come un mare furioso in tempesta.
E ci ha quasi travolti.

«Duncan» catturo la sua attenzione.
Parlo sottovoce per non far intorpidire altri muscoli, tesi come corde di un violino consumato. Stanco.
Rimane di schiena e posso vedere il suo respiro farsi sempre più pesante. I muscoli allenati della schiena sono ben visibili sotto alla maglia bianca, che non fa altro che abbassarsi ed alzarsi, sfiorando l'osso sacro.

Ho paura.
Ho paura di non essere delicata, di farmi trascinare dall'istinto e rovinare tutto quanto.
Non voglio che mio fratello soffra. Detesto vederlo star male.
Vorrei trovare le parole giuste da dirgli, ma non saprei dove cercarle. Non so nemmeno se esistano.

«Mhm.» la sua voce roca, rotta, si fa strada nel mio corpo, cospargendomi la pelle di brividi profondi.
Mando giù il groppo di saliva accumulata poco sopra al nodo della gola, distogliendo lo sguardo.

Non so cosa dire. Sono così confusa da non conoscere nemmeno il mio nome.

«Sai...» sussurra lentamente, con labbra intorpidite, «Penso spesso alla prima volta in cui ti ho stretta fra le mie braccia».
Guarda fuori dalla finestra, perso in se stesso.

Vorrei tanto correre ad abbracciarlo e fargli sapere che ci sono, che ci sono sempre stata e ci sarò, ma so che ha bisogno di tempo. Deve riflettere, a lungo. Da solo.

«Eri così piccola ed innocente. Mi guardavi con quegli occhioni che sembravano due pozze colme di smeraldi e afferravi le mie dita, portandole vicino al petto» la malinconia per il passato ci toglie il respiro.

Duncan mi ha sempre amata così tanto.
Certo, a volte non potevamo vederci, ma finivamo sempre per cercarci e... ritrovarci.
Siamo sempre stati così legati, come due nodi appartenenti allo stesso gomitolo.

«Ero piccolo e mi sembrava tutto così grande. Avrei avuto una sorella, l'avrei protetta con tutto me stesso. Nessuno avrebbe mai potuto farle del male».

Una lacrima solitaria scivola lungo la mia guancia. Sono stanca e ancora scossa, mi è difficile trattenermi.
La catturo con dita tremanti, soffocando i singhiozzi silenziosi che pretendono di liberarsi nel silenzio doloroso attorno a noi.
Non volevo farlo, non volevo piangere.
Una gravidanza deve portare gioia, non timore, tristezza.
Non è giusto nei confronti di Maia, di quello che hanno costruito insieme.
Siamo così giovani, così volenterosi di essere forti e gradi, quando nel profondo siamo deboli e ancora bambini.
È un bagaglio troppo grande e pesante per essere portato da una sola persona.

PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora