NEVERLAND 3' Capitolo "Nei Giardini di Kensington"

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Ricominciai a parlare di Peter pochi mesi dopo, quando mia madre mi disse, con le lacrime agli occhi, che mio fratello David, appena nato, non sarebbe mai cresciuto.

Eravamo in ospedale quel giorno, a Great Ormond Street Hospital, nel reparto pediatrico dove mi avevano portata la notte in cui ero volata via dalla finestra.

I miei genitori avevano avuto un altro figlio, un miracolo.

Ma era nato con dei problemi cardiaci che lo avrebbero perseguitato a vita, se fosse vissuto.

David sarebbe rimasto per sempre un bambino.

Dopo aver pianto, avevo preso una decisione: invece di fare pesare a David la sua malattia, come facevano i miei genitori portandolo di continuo in ospedale, per le cure mediche, lo avrei fatto vivere durante quei pochi anni che gli rimanevano, in un mondo di fantasia.

Anche se avevo smesso da tempo di credere.

Quel pomeriggio, eravamo seduti su una panchina, nei Giardini di Kensington.

Avevo lo scotch tra le dita e stavo sistemando il nostro aquilone. L'estate era quasi finita, ma i viali erano pieni di bambini che giocavano.

Nana stava sonnecchiando, non ci perdeva un attimo di vista.

Come nonna Moira aveva fatto con me per anni, avevo raccontato a David tutte le storie che conoscevo su Peter e sull'Isola che non c'è.

«Un giorno, potrò volare di nuovo?» mi domandò mio fratello. «Come facevo quando ero un uccello? Prima di nascere?»

In quello stesso momento, dalle chiome degli alberi sopra di noi, si levò in volo uno stormo di passeri, cinguettando. Lo percepii come un segno.

«Certo, e potrai tornare sull'Isola che non c'è» continuai a sistemare il nostro aquilone.

«Sai, Wendy... A volte le spalle mi prudono un sacco. Vuol dire che Peter presto verrà a prendermi?»

David sapeva tutto oramai e mi osservò con il suo faccino speranzoso. Gli avevo detto che quel prurito che sentiamo alle spalle non è altro che un ricordo, di quando avevamo le ali.

Certe cose sono difficili da dimenticare, soprattutto per i bambini, perché per loro è trascorso meno tempo da quando erano uccelli, rispetto agli adulti.

«L'aquilone è pronto» mi alzai dalla panchina e Nana si alzò, sbadigliando.

Adesso andavo al liceo, in una scuola privata di Londra. Presto mi sarei diplomata e dopo sarei andata a Cambridge, proprio come avevano sempre desiderato Mary e George Darling, i nostri genitori.

Non li avevo mai sentiti fare progetti su David, perché avevano sempre saputo, fin dalla sua nascita, che mio fratello non sarebbe mai cresciuto.

Oramai avevo capito che chiunque avessi amato, mi sarebbe stato strappato via.

Dopo mia nonna, era David la persona con la quale condividevo tutte le mie giornate.

Parlavamo di continuo, gli raccontavo le storie che non avevo mai finito di scrivere, quando sognavo di diventare una scrittrice.

Diedi una sistemata all'uniforme scolastica che indossavo: una gonna a pieghe e una giacca blu con lo stemma sul taschino frontale, una cravatta con il tartan rosso.

A volte David mi ricordava uno di quei monelli di Charles Dickens: gilet, camicia a maniche corte e bretelle, pantaloncini.

Nostra madre lo vestiva con abiti firmati non adatti a un bambino e si arrabbiava quando, dopo aver giocato con me ai Giardini, tornavamo sporchi d'erba.

NEVERLAND PETER PAN E WENDY  (ESTRATTI)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora