Divladimir
La luce delle finestre si riversò lungo il pavimento del corridoio. In pochi minuti, la casa si riempì di quella fioca e fredda luce del mattino, mentre le tende, immobili, fingevano che nulla fosse accaduto. Le urla cessarono in un breve lasso di tempo, e per un attimo fu quiete.
Sentivo il battito del mio cuore rallentare, le vene pulsare sempre più piano sotto le catene e i polsini di cuoio. Un ultimo urlo, lacerante, colmo di dolore e angoscia, irruppe in quel fragile momento di sereno nulla. Fu come se i miei polmoni si strappassero, come se i miei muscoli si tendessero al massimo per un'ultima volta. Strattonai le catene con forza: il rumore metallico rimbalzò sulle pareti, e con affanno mi lasciai cadere sul pavimento di legno. I tasselli alle pareti e al suolo, a cui le catene erano ancorate, ormai cedevano - ne percepivo l'instabilità. Con le mani cercai il catenaccio del collare di cuoio che mi stringeva piano la gola, quasi a volermi assicurare che non fosse solo frutto della mia mente.
Dei passi si avvicinarono. Passi decisi, che conoscevo bene. Sentii tintinnare le chiavi tra le sue mani ferme, mentre chiudeva la porta. Eppure, riuscii comunque a percepire lo sguardo curioso e inquieto dei bambini su di me.
«Blake,» disse con voce dolce, in netto contrasto con il suo modo autoritario di muoversi, «posso toglierti le catene?»