"Io dipendevo da lei e lei dipendeva da me. Se uno dei due si feriva, veniva ferito anche l'altro, se uno dei due provava tristezza, rabbia, delusione, frustrazione, gioia, malinconia, anche l'altro l'avrebbe provato, anche se in maniere differenti. Eravamo come una cosa sola, ma la peggiore di tutte era che se uno dei due moriva, moriva anche l'altro, di una morte lenta, dolorosa, logorante, una sensazione di vuoto, di mancanza, di solitudine, come se avesse perso il suo tesoro più grande, che avrebbe portato al suicidio per quanto insopportabile, o che, comunque, avrebbe consumato il soggetto dall'interno, fino a portarlo alla morte.
Lei avrebbe fatto tutto quello che le avrei chiesto, anche se contro la sua volontà, mi avrebbe protetto da ogni pericolo e io l'avrei protetta dal suo istinto di proteggermi. Il mio sangue sarebbe stato il suo pasto e il suo sangue sarebbe stato il mio. Io avevo bisogno di lei, così come lei aveva bisogno di me. Ecco in cosa eravamo finiti, ecco in cosa consisteva il nostro asservimento."
Se dovessero chiedere a Ginevra di parlare del destino, molto probabilmente userebbe come esempio lei e Kenan.
Parlerebbe di come il suo telefono, cadendo a terra quella sera allo Juventus Stadium, le avesse fatto incrociare gli occhi brillanti del giovane.
E ancora, citerebbe della notte in cui si era ritrovata ad aiutarlo con una gomma dell'auto bucata.
Tutto ciò senza mai averlo visto prima. Nessuno dei due fino a quel momento sapeva uno dell'esistenza dell'altro.
Per Ginevra quello, era destino.