La parola "Aesthetic" ha origine dal greco e vuol significare una sensazione o un assorbimento del mondo che ci circonda attraverso l'uso dei sensi.
La nascita del termine in sé risale al 1750, quando con un trattato, Alexander Gottlieb Baumgarten, precisò che l'aesthetic è la "scienza del bello, e delle arti liberali" dunque tutte le attività artistiche come la pittura, la danza, musica ecc.
Confermando ciò, egli diede un grande peso allo studio della percezione attraverso i sensi, che scindeva dalla percezione del mondo attraverso la mente.
Successivamente, con Denis Diderot, si abbandona ogni schema idealistico poiché egli considera che il senso del bello è unicamente racchiuso tra rapporto di oggetto-soggetto, e cioè che le emozioni e le sensazioni che si provano nel osservare qualcosa, sono intime, e dunque chiarisce il senso di"aesthetic": ciò che si riesce a percepire in base alla propria esperienza personale.
Ma in una generazione tecnologica, contaminata da stimoli sensoriali continui, cosa vuol dire veramente creare un "aesthetic"?
Nasce sui social questa forma di comunicazione che incentra la trasmissione di sensazioni e di emozioni in base a collegamenti di foto, brani da ascoltare e soprattutto la ricerca di determinate parole ed accostamenti eleganti che vadano a suscitare nel lettore una sensazione di appagamento, rabbia, libertà, occlusione, e tutto ciò che porta l'anima a purificarsi attraverso un moodboard (concept) studiato ad hoc.
L'aesthetic non è solo un libro da leggere, ma da consultare quotidianamente, poiché esso ha la capacità di farci urlare, emozionare, piangere, ridere, e di poter azzerare quella sensazione di "sporco" che talvolta proviamo nell'anima.
In una generazione connessa, dunque, mi sento di dire che l' aesthetic è un meraviglioso backup dell'anima umana, un hard disk esterno che ci permette di mantenerci vivi senza mai dimenticare realmente chi siamo.