Germania, 1940
Ester aveva sempre voluto scappare da quella prigione che era la sua vita, dove non poteva più camminare per strada senza che nessuno guardasse la stella cucita sul suo seno con disprezzo, dove la paura le attanagliava le viscere quando camminava vicino a un soldato delle SS, dove non poteva più toccare il pianoforte.
L'ebrea si ritroverà a scappare dal suo incubo peggiore nella Germania Nazista, accompagnata da un fedele amico e compagno di viaggio, anch'egli perseguitato, ma per motivi ben diversi.
Tra bandiere rosse, risate e lacrime, inganni e tristezza, la storia si srotola nel realismo di quell'epoca, macchiata dal sangue degli innocenti.
« Dopo aver messo cappotto, cappello e sciarpa, uscì dalla sua stanza stringendo la valigia, non sapeva dove andare, portava con se solo un mazzetto di soldi, un paio di vestiti, del cibo, l'anello che le aveva regalato la madre e l'orologio preferito del padre per avere un pezzo di loro con se.
Li vide mentre sedevano nel divano in attesa del loro destino e si impresse i loro volti stanchi e tristi nella mente, per paura di scordarli, stessa cosa fece con la stanza e il piano, leggermente accarezzato dalla luce lunare che avvolgeva il luogo rendendolo cupo.
Deglutì non dicendo nulla, attraversando per l'ultima volta l'atrio e aprendo la porta, correndo giù dalle scale.
Corse fino a che non le dolerono le gambe, con i capelli rossi sciolti e gli occhi del medesimo colore per aver pianto troppo, affondando i pesanti stivali nella neve fresca, provocando uno scricchiolio sordo, mentre la valigia le sbatteva sonoramente sul fianco provocandole dolore.
Dentro il suo cuore sapeva che quella era l'ultima volta che li avrebbe visti. »
La donna che amo...
Ti chiedo di aver cura di lei.
L'hai veduta oggi?
Hai ascoltato il tepore della sua stanza ancora chiusa al mattino?
Silenziosa magnolia mescolata a sfuggente marsiglia...
Metallico acciaio intessuto di lino?
E l'hai scorta, alla sera, mentre, assorta, osserva le ortensie fiorite al di là delle finestre della grande sala?
E dunque alla fine è come se l'avessi portata con me in fondo, ogni giorno.
Mentre cammino, mi sovviene d'osservare il cielo, da lontano si odono le strida dei gabbiani, lo sciacquio del mare e tornando con lo sguardo avanti a me, è come se lei fosse lì, soltanto che io sono mezzo passo dietro a lei...
Mezzo passo dietro a lei...
Scavare un pertugio temporale, complice la cronologia abbastanza stringente della storia originale, un tassello differente, più o meno plausibile, nella visione conosciuta e limpida, rimasta tale anche quando la mente ed i gesti dei protagonisti si sono avventurati per meandri oscuri.
Una storia altra e forse scomoda, nulla di rassicurante, perché una storia rassicurante non serve a molto, solo a girare attorno al "non voler sapere", al "non voler sperimentare".
"Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure", diceva la lettera. Seguiva poi un bellissimo racconto di avventure immaginarie, di viaggi e di fantasia. Elsi leggendo quelle parole suggestive che la rimandavano a luoghi lontani, si sentì immediatamente consolata. Alla fine lo scrittore le regalò una nuova bambola, chiaramente diversa da quella perduta. Ma il suo aspetto diverso venne giustificato da un biglietto: "I miei viaggi mi hanno cambiata".
Qualche anno dopo, la bambina trovò un biglietto proprio dentro la sua bambola che diceva: "Ogni cosa che tu ami è molto probabile che tu la perderai, però alla fine l'amore muterà in una forma diversa".
Da "Kafka e la bambola viaggiatrice" di Jordi Sierra i Fabra