8 parts Ongoing Perché trasformare le opere liriche in favole rock?
Perché l'opera lirica è già favola.
Favola per adulti, fabbrica di archetipi, teatro dell'anima che canta invece di parlare.
E perché il rock - soprattutto quello degli anni '70 - non è solo un genere musicale, ma un linguaggio viscerale, una mitologia contemporanea fatta di assoli, cadute e redenzioni amplificate.
Le favole rock che sto scrivendo non sono traduzioni, ma trasfigurazioni.
Non voglio portare Verdi o Puccini in un teatro moderno, ma portare i loro personaggi dentro i sogni infranti dei margini, sulle strade sporche di una provincia italiana in bianco e nero, nei club autogestiti, nei campi abbandonati, sulle chitarre scordate di chi non ha mai avuto un palcoscenico.
Scelgo il rock e non il romanzo, il teatro di prosa o il cinema perché solo il rock riesce a conservare l'urgenza del canto originale.
Solo il rock può far gridare il dolore senza spiegazioni.
Solo il rock può essere lirico senza chiedere il permesso.
Il rock degli anni '70, poi, è un'epoca che assomiglia a un'opera: eccessiva, tragica, grandiosa, illusa.
I suoi protagonisti sono nuovi eroi melodrammatici: non più principi o regine, ma cantanti caduti, chitarristi emarginati, figli nascosti, amanti traditi, idealisti bruciati.
Dentro di loro vive ancora il cuore dell'opera lirica, ma il loro linguaggio non è più quello della corte o del melodramma ottocentesco - è quello della distorsione, della chitarra solista, del palco basso e della luce stroboscopica.
Sto trasformando le opere in favole rock perché voglio che chi le legge o le ascolta possa riconoscersi in quelle voci e in quei gesti.
Voglio che la tragedia torni a essere popolare, che il dolore torni a parlare nelle lingue sporche e vere del nostro passato prossimo.
E soprattutto, perché sotto i riff e i cori, sotto i jeans a zampa e le Gilera rosse, c'è ancora una musica che cerca di salvarci.
Come ha sempre fatto.