Cartoline per un vangelo apocrifo
Come si scrive una vita dopo la morte? Da dove si narra la vita di qualcuno che non è più? Come si cantano le gesta di chi rimane solo nel ricordo? Come si rispondono a queste domande quando colui che è ora assente è (o era) un D10s? Queste sono le domande che sembrano percorrere il decimo libro di Nicolás Guglielmetti. Domande che, dall'incertezza che la passione porta una volta placati gli animi, e dal recupero tecnico di una poetica degli anni Novanta, cercano di essere risposte affrontando il maggior numero di sfaccettature, affrontando il mito nella sua complessità stessa, e dribblando (se mi permetti il verbo) tra la devozione, la polemica e le immagini con cui attaccano i pagani. Così, quindi, Guglielmetti, si biforca, si duplica, diventa un io e anche un altro. Scrive, da un lato, come un narratore: come un biografo che raccoglie cartoline, scene di Maradona viste in terza persona, dagli occhi dei suoi fedeli, dei suoi devoti, che sono rimasti con il ricordo del suo passaggio su questa terra, ripetendo la preghiera dei suoi miracoli, custodendo con cura i talismani sparsi e celando la prossimità di sangue dei suoi discendenti e parenti. Questi testi sono anche quelli della scena pubblica, dei bar, delle spiagge, dei campi da gioco e, naturalmente, dei giornali e della televisione. Sono quelli della voce citata, ripetuta, diffusa. Sono testi che raccolgono quel mormorio ripetuto che risulta essere il fondamento stesso della fede. Ma Guglielmetti qui è anche un altro, o è l'io. È il poeta: è la prima persona che parla allo stesso livello di quel tu, intimo, che si guarda allo specchio e non si riconosce.
Una raccolta di poesie che esplora emozioni intime, sogni e riflessioni, dove le parole diventano il riflesso di ciò che spesso rimane nascosto nel cuore.