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Prefazione

Aveva cinque anni e teneva stretta una bambola senza occhi.
Era seduta su una panchina, le gambe a penzoloni, mentre la pioggia cominciava a disegnare piccoli cerchi sull'asfalto. Le dita di sua madre stringevano il manico dell'ombrello come se potesse rompersi da un momento all'altro. Loreinne non capiva bene cosa stava succedendo, ma sapeva che qualcosa si stava rompendo. Per sempre.

«Starai bene qui» disse la donna, senza guardarla negli occhi. «Ti prenderanno cura di te. Io... non posso più.»
La voce le tremava, ma non era tristezza. Era fretta. Era paura.

Loreinne non parlò. Non pianse.
Stringeva solo la bambola, come se potesse parlare al posto suo.

Una suora uscì dalla grande porta bianca dell'edificio. I suoi passi erano silenziosi, le mani nascoste nelle maniche. Non disse il nome della bambina. Non chiese nulla. Sapeva già.
La madre si chinò, sfiorò appena la guancia della figlia - un gesto goffo, troppo tardi, troppo poco. Poi si alzò e se ne andò.

Loreinne restò lì a guardarla allontanarsi sotto l'ombrello nero.
Un passo, due, tre... dieci.
E poi sparì dietro l'angolo, come una parola non detta.

Quella fu l'ultima volta che vide il volto di sua madre.
Non ricordava il suo odore. Né la sua voce. Solo quel rumore di tacchi troppo veloci sull'asfalto bagnato.

Quel giorno, Loreinne imparò due cose:
Che l'amore poteva andarsene.
E che non sempre chi ti mette al mondo decide di restare.