Alla vigilia di Natale era tutto per aria, completamente in aria. Carla era andata, stavolta lo aveva fatto davvero. Un punto all'orizzonte che non si sarebbe più avvicinato, mai più. Una serie di consuetudini strappate via, di contatti brutalmente interrotti. Con una decisione che brucia via ogni attesa, elude ogni eventuale ritorno.
Era la mattina del ventiquattro e Alessandro non aveva risorse diverse dal guardare il tempo fluire via, senza poter intervenire. Ogni tentativo di intervento, ogni schema di pensiero di qualsiasi tipo, gli procurava solo fitte di mal di testa. Meglio sedersi a lato, ed aspettare. Aspettare cosa, non si sa. Non gli era chiaro. E poi era pieno di rabbia. Per la miseria. Non si va via buttando tutto così, strappando ogni cosa. Ora tutto era un vuoto e ogni cosa aveva un vuoto tremendo dentro, un vuoto così forte e a malapena trattenuto che Alessandro aveva l'idea che questo vuoto così compresso potesse esplodere da un momento all'altro, travolgendo tutti quelli che facevano ostinatamente finta di non vederlo.
Il vuoto puoi far finta di non vederlo quando le cose vanno bene, ma quando capita una cosa brutta davvero non ce la fai più a non vederlo.
Così alle dieci e trenta di quella mattina del ventiquattro non sa proprio più cosa fare e decide di chiamare Andrea per fargli gli auguri. Cioè non è che abbia addosso questa voglia irresistibile di fargli gli auguri, ma bisogna pur far entrare qualcosa in questo vuoto, stabilire un contatto, una pur minima connessione con qualcosa o qualcuno.
Prende la cornetta. Bene, bene così. E' tanto, sto facendo qualcosa. Intanto sto reagendo.
Però mentre compone il numero, arrivato al "7" (dài, ne mancano solo due, poi magari non è in casa e posso mettere giù) si ferma. E' travolto un treno di pensieri che lo atterrisce del tutto.
"E' inutile che stiamo a parlare, qui mi gioco la felicità e stavolta non voglio perderla", aveva detto lei.
Stavolta? E quando mai l'avresti persa? E poi perché, questi tre anni sono stati tristi? Non ci siamo mai divertiti? E soltanto un mese fa a Piazza Navona che siamo andati in giro come due turisti contenti di tutto e poi ci siamo fermati a mangiare in quel ristorante dietro Sant'Agnese e tu avevi riso tutto il tempo e mi abbracciavi davanti alle gente, poi tornati a casa finalmente avevamo fatto l'amore con tale trasporto che non ci capitava da un botto, anzi eri tu che mi avevi chiesto, mi avevi spogliato, mi avevi guidato. Allora non era vero che non ti davo piacere, che con me non stavi bene. E allora questa felicità l'avevamo o no? Ho capito che c'erano dei problemi, lo so bene che c'erano dei problemi. Ma chi non li ha? E dovevi proprio andare con lui, via con lui?
"Tu non mi capisci, perché pensi solo a te stesso. Lo sai, penso che tu non mi abbia mai capito veramente, capito me, le mie esigenze"
E lui, lui ti avrebbe capito? O magari ti ha messo le mani addosso, magari è più bravo di me in queste cose, ti ha dato quello che io non ti sapevo dare. E' così che ti senti compresa? O soltanto presa, magari. Ma no, sto diventando cattivo. E poi non è questo, non è nemmeno questo.
"Lui mi ha fatto capire chi sono veramente, che potenziale ho. Rischiavo di passare la vita senza saperlo."
Allora in tutto il tempo che abbiamo passato insieme, non l'hai mai capito? Tutte le cose che abbiamo fatto, visto, toccato. Tutti gli abbracci, gli scherzi, le canzoni. Niente?
Ora il tempo è in fase che scandisce il dolore con splendida sincronicità e matematica esattezza, e Alessandro non ci riesce, a comporre il numero dell'amico. Soprattutto non capisce perché. Perché mai è andata come è andata. Perché mai lei se ne è andata.
Ok. Respiro... 7..4..1. Ecco. Magari non c'è, intanto ho fatto qualcosa. (Beep. Beep.)
"Alessandro, ciao. Perché non fai un salto qui?". Guarda tu se Andrea doveva rimanere a casa.