La luce del Sole irrompeva violentemente in salotto mentre, seduti attorno al tavolo rettangolare, ci stavamo godendo uno di quei pranzi in famiglia che ricordava tanto un film americano. Mi guardavo intorno insistentemente, le mie gambe tremavano mentre Tancredi tentava in tutti i modi di impartirmi calma e coraggio, entrambe cose di cui avevo realmente bisogno in quel momento.
Sapevo bene che la reazione di mia madre non sarebbe stata certo delle migliori, ma ormai avevo diciotto anni, ero etichettata dalla Legge maggiorenne e indipendente quindi lei non aveva alcun diritto di impedirmi di farlo, vero?
Non ne ero certa, nemmeno un po'. Dato il suo perenne e sempre presente istinto protettivo nei miei confronti, dubitavo fortemente che avrebbe accettato, ma non l'avrei saputo finché non mi sarei fatta coraggio.
Presi a studiare la tavola e tutto ciò che vi era sopra: i piatti, i bicchieri, le posate e i tegami di tortelli di zucca divisi da quelli verdi. Passai in rassegna ogni bottiglia, che fosse d'acqua o di vino, strizzai gli occhi tentando di mettere a fuoco le etichette che riportavano i valori nutrizionali. Nulla, neppure questo servì a distrarmi.
Così posai lo sguardo su mia madre: seguivo i suoi movimenti, come portava la forchetta alla bocca, come rideva alle battute del compagno, come si impegnava nel fare domande improponibili a Tanc giusto per il gusto di sentirlo parlare. La guardai portarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, poi coprirsi la bocca con una mano a nascondere quel sorriso così dolce e spontaneo, lo stesso che non vedevo ormai da tempo.
Le avrei di certo rovinato la giornata, quel sorriso sarebbe svanito nel nulla con un colpo di bacchetta magica, quella luce nei suoi occhi si sarebbe spenta, come una Stella cadente che scompare nel buio della notte. Forse era troppo affrettato, forse stavo sbagliando, forse ero solo sovraccarica di adrenalina al punto di pensare, egoisticamente, solo a me stessa.
Fu in quel momento che lasciai cadere la forchetta sul piatto, provocando un forte rumore che infastidì persino me. In una frazione di secondo caló il silenzio nella stanza: le risate si erano volatilizzate, così come le battute, gli scherzi e gli schiamazzi. Persino Tanc, che rideva come un pazzo, si era zittito, visibilmente preoccupato che qualcosa non andasse. Non appena il mio sguardo incontró il suo, fu subito intesa. Scosse la testa da un lato all'altro, come a dirmi "no, non adesso. È il momento sbagliato". Ma io non ne volli sapere. Annuii sicura, strinsi le mani in due forti pugni che poggiai sulle cosce stringendomi leggermente nelle spalle.
"Va tutto bene, tesoro?" Mi domandó mia madre.
Non aveva la minima idea di cosa stavo per dirle, non sapeva che di lì a poco avrebbe rischiato di restare senza fiato. Sospirai, mi feci coraggio.
"Devo dirti una cosa, mamma.".
Il suo sguardo si fece visibilmente allarmato, scattó sull'attenti irrigidendosi sulla sedia, schiena dritta e petto in fuori.
"Certo, tesoro. Dimmi.".
La sua voce era così calma e pacata, totalmente in contrasto con l'apparenza che dava a vedere. Quel miscuglio di dolcezza e preoccupazione che trapelava dai suoi occhi mi fece quasi pentire di aver scelto proprio quel momento per parlare, avrei dovuto ascoltare Tanc, avrei dovuto fermarmi. Ma ormai era tardi, ormai avevo aperto bocca, il coraggio scorreva velocemente nelle mie vene pronto a gettare fuori tutto ciò che più desideravo dalla vita: passarla con Tancredi.
"Mi trasferisco. Vado...ecco...andiamo ad abitare insieme, io e lui." Esordii infine, senza il minimo tatto, indicando con un dito prima me poi Tanc.
A quel punto furono tre le forchette che caddero sui piatti, quasi all'unisono, accompagnate da bocche spalancate e occhi più che sgranati.
"Tu. Voi. Cosa? No, Sofia. Non se ne parla.".
"Signora..." Tentó Tanc, ma lei lo zittì malamente alzando una mano in aria in segno di stop.
"Sei ancora troppo piccola. Non hai nemmeno un lavoro, devi terminare gli studi. No, Sofia. No.".
"Non puoi dirmi cosa posso e non posso fare.".
"Sono tua madre!".
"Ho diciotto anni ormai, non devo più sottostare ai tuoi obblighi. Non ti ho fatto alcuna domanda, mamma. Te l'ho semplicemente detto: mi trasferisco.".
Gli sguardi dei tre uomini presenti attorno a noi saettavano nervosamente da lei a me, da ma a lei. Temevano forse che avremmo preso a lanciarci piatti, posate e bicchieri addosso, se non addirittura i tegami di tortelli ancora in parte pieni. Glielo si leggeva negli occhi, erano tutti e tre ben impostati sull'attenti per schizzare in piedi e placare una rissa tra madre e figlia che si prendevano per i capelli.
Ebbene, non fu ció che successe.
Mia madre, una donna composta che non si fa intimidire da niente, per un attimo non fu più la stessa. Giurerei di aver visto una lacrima fare capolino dai suoi occhi senza però scendere sulle guance arrossate. Nacque lì, così come vi morì, senza mai lasciar spazio alla tristezza, alla delusione. Mai in presenza di altri.
"Scusate." Disse con voce piatta, scostando la sedia all'indietro e dirigendosi verso la porta del bagno.
Portai le mani a coprirmi gli occhi: avevo fatto piangere l'unica donna che avrebbe mai dato la sua stessa vita pur di vedermi felice. Dire che mi sentivo uno schifo era incredibilmente riduttivo rispetto a come realmente percepivo me stessa in quel momento. Mi affrettai ad abbandonare il tavolo e ripercorrere i suoi stessi passi, bussai alla porta rigorosamente chiusa a chiave interrompendola proprio nel mezzo di un singhiozzo di pianto.
"Mamma." Sussurrai passando delicatamente una mano sul legno bianco.
"Mamma, fammi entrare, ti prego.".
In pochi istanti udii il rumore della chiave, lo scatto della serratura, il click della maniglia rotonda dell'apertura scorrevole, poi vidi il suo viso.
Il mascara era colato sulle guance ch'erano ormai tornate del loro colore naturale; gli occhi arrossati e colmi di qualcosa che faticai a decifrare: era forse delusione, o rammarico, o malinconia.
Allacciai le mia braccia al suo collo, la strinsi a me come mai avevo fatto prima d'allora. In quell'istante potei sentire il battito del suo cuore contro al mio, i suoi singhiozzi sul mio collo, il suo corpo tremante tra le mie braccia. Stavo assistendo alla scena decisamente più sconvolgente e inaspettata di tutta la mia vita, e fu solo lì che compresi il danno che avevo provocato.
Mia madre in quelle condizioni non l'avevo mai vista, neppure dopo la separazione da mio padre. Dal suo stato traspariva chiaramente l'enorme senso di solitudine, il vuoto che le aveva causato la consapevolezza del mio imminente allontanamento.
Temeva forse che mi avrebbe persa, per sempre? Temeva che non sarei più tornata da lei? Che l'avrei abbandonata e dimenticata come si fa con le cose vecchie? Ma come avrei potuto farlo? Lei che per me avrebbe sfidato il mondo intero; lei che pur di vedermi sorridere si sarebbe improvvisata giullare di corte; lei che mi avrebbe asciugato le lacrime con la sua stessa pelle pur di tentare almeno di assorbire il mio dolore.
Sentii le sue braccia stringere maggiormente attorno al mio corpo, il suo cuore si stava via via calmando mentre il respiro riprendeva ad essere quasi regolare. Il suo volto si asciugó, vidi quella luce, quella che i suoi occhi erano soliti emanare.
"Se ti rende felice, segui la tua strada. Ma ricordati che la mamma sarà qui per te, sempre, ad aspettarti a braccia aperte come quando dovevo insegnarti a camminare. Un passo dopo l'altro, insieme, ma solo tenendoci per mano.".
"Ti voglio bene, mamma." Ora ero io a piangere.
"Anch'io piccola mia, non sai quanto.".
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Senza mai dirci addio - Tancredi Galli
FanfictionA grande richiesta, eccovi il sequel di "Ti guardo fisso e tremo", la meravigliosa storia d'amore che unisce Tancredi e Sofia prosegue vedendo i nostri protagonisti sempre più innamorati e affiatati. Come andranno le cose? Saranno davvero fatti per...