PROLOGO

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Paula

Le mie dita scivolano dal palmo aperto della mano, fino all’incavo del gomito, per poi risalire lentamente.

Eccolo il mio brivido. È stata mia madre a insegnarmelo, ed è uno dei pochi ricordi che ho di lei: il suo tocco sulla mia pelle. Se non fosse per le fotografie, non rammenterei nemmeno il suo volto, così come non ricordo il suo profumo o il suo abbraccio.

Ma ho queste parole stampate addosso: “Sulla pelle, il cuore, la mente e l’anima si mischiano ancor prima di mettersi d’accordo.

Per questo devi fidarti delle sensazioni, perché la pelle non mente mai”.

E ora, mentre ripeto questo gesto per l’ennesima volta, sento tutta la mia paura. Forse anche a causa dell’immenso orologio da parete che mi fissa impietoso. E ho come la sensazione che non domini solo il mio ufficio, ma anche tutta la mia vita.

Ad appena trent’anni ho annullato i miei sogni e me stessa per essere qui e ora. Ho assunto responsabilità scomode e fissato obiettivi ardui. Ho cercato di essere perfetta, il più perfetta possibile, per meritare di essere amata. Ho fatto ciò che dovevo, senza mai chiedere a me stessa cosa desiderassi. E, infine, sono diventata la persona che tutti si aspettavano che diventassi.

E ora mi domando se tutto questo ha avuto un senso o se sarà soltanto un’altra cicatrice sulla pelle.

Leo spalanca la porta affannato, come al solito non ha bussato, ma che importa? Questo dopotutto potrebbe essere l’ultima volta che piomba nel mio ufficio.
«Paula, i fratelli Ferring sono arrivati!», esclama d’un fiato.

«Come vorrei non essere in questa situazione. Penso a tuo padre e sento che l’ho deluso», gli rispondo e tengo gli occhi bassi sui fogli disposti maniacalmente in ordine sulla scrivania.

Sospira, poi mi guarda con tenerezza: «Piccola, non l’hai deluso. Semmai l’ho fatto io. Tu sei sempre stata il suo orgoglio. Hai rinunciato a tutto per il suo sogno e l’hai fatto diventare il tuo».

Mi mordicchio lo smalto nervosamente, continuando a fissare l’orologio sulla parete bianca.

Ho la testa affollata e l’animo vuoto.

Ancora una volta è tutto nelle mie mani.

«Vieni qui, abbracciami. Facciamo un respiro profondo e andiamo ad affrontare anche questa», aggiunge lui, cercando di apparirmi risoluto.

Mi alzo e lo stringo forte. Per non avere paura. Per stamparmelo addosso. «Ok, sono pronta, fratellino, andiamo», affermo, incamminandomi verso la porta, provando a radunare tutto quel coraggio che non so se ho davvero.

Quando Leo e io entriamo in sala riunioni, i fratelli Ferring sono lì ad attenderci, con il loro staff impettito e sospettoso.

Anche la nostra squadra è già seduta attorno al tavolo ovale, nella stanza dalle pareti di vetro.

Mi guardo attorno e vedo Manhattan in tutto il suo splendore.

Adoravo questo posto da bambina. Ricordo quando Arold Mitchell mi teneva sulle sue ginocchia e mi mostrava Central Park, l’Empire State Building e anche l’One World Trade Center.

Sospiro e mi faccio forza, accomodandomi a capotavola, in quello che fu il posto di mio padre e ora è il mio.

Leo mi si siede accanto.

«Paula Mitchell. Responsabile della produzione», recita il cavaliere di fronte a me. E questo è ciò che sono da più di sei anni. Ciò per cui ho studiato e lavorato sodo, senza fronzoli, né distrazioni. Dritta all’obiettivo, come mio padre, e prima di lui mio nonno, e mio bisnonno ancora.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 08 ⏰

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