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Quel ragazzo brillava. Evelyn l'aveva sempre pensato, ma quella sera non potè fare a meno di congratularsi con sè stessa per aver supposto in maniera così corretta la natura di lui: quel giorno, infatti, ne ebbe l'ennesima conferma, l'ennesima prova che lui, più di tutti, fosse una persona a dir poco luminosa; non che brillasse letteralmente, sia chiaro, ma il suo carattere, tanto umile quanto generoso, non poteva che coincidere con la definizione di "luce". Il modo in cui guardava gli altri, parlava, si muoveva e sorrideva, dava ad Evelyn l'impressione che lui potesse emanare una sorta di tepore, capace di infondere in chiunque gli stesse vicino le certezze e il supporto che in molti andavano cercando. E sebbene con lui avesse scambiato meno parole di quanto avrebbe voluto, Evelyn provava una sincera curiosità per i suoi modi di fare.

Perciò, quando lo vide lì, in parte alla strada, che osservava la luna come se non esistesse nient'altro all'infuori di essa, ne fu decisamente sorpresa. D'altronde, era uscita di casa solo perché la madre le aveva chiesto di recuperarle alcuni ingredienti necessari per il giorno successivo, altrimenti a lei non sarebbe mai venuto in mente anche solo di fare un passo fuori dalla propria camera. Pertanto, aveva pensato di non incontrare nessuno, sia perché abitava vicino a un minimarket -dal quale quindi avrebbe potuto fare scorte-, sia perché era relativamente tardi. Non a caso la luna era già visibile nel cielo, come ad imprimere in quella distesa di nero un cerchio argentato.

Si incontravano a scuola tutti i giorni, eppure avercelo davanti, in un ambiente che non fosse quello scolastico, le fece uno strano effetto. Si fermò improvvisamente, con in mano ancora le buste piene degli ingredienti, e si limitò ad osservarlo. Gli occhi di lui erano puntati in alto, i capelli corvini erano disordinati, e diverse ciocche spuntavano qua e là a formare una chioma mossa. Indossava un cappotto di un verde scuro, insieme a una sciarpa rossa e un paio di jeans. Era di profilo, con le mani infilate nelle tasche del giaccone. Tutto sommato, lui era vestito più decentemente di lei, che aveva indosso una felpa leggera e dei pantaloncini. Al che la madre, ogni volta sempre più sconvolta, chiedeva alla figlia come mai, nonostante fosse pieno inverno, lei non usasse dei vestiti più pesanti e dei pantaloni più lunghi e caldi; e per quanto potesse sgirdarla e metterla in guardia della possibilità che, così conciata, avrebbe potuto ammalarsi, la giovane ragazza aveva tutta l'aria di non voler cambiare atteggiamento. Nessuno era a conoscenza del perché si ostinasse a congelarsi in quel modo.

Fatto sta che lui, dopo averla notata, si era voltato nella sua direzione e a Evelyn non sfuggì la sua espressione, che le parve malinconica. Ma in quello stesso momento si accorse del fatto che lui, effettivamente, avrebbe potuto non ricordarsi minimamente di lei, nè delle brevi frasi che qualche volta si erano scambiati, quindi si sentì piuttosto in imbarazzo. Tra l'altro, poteva risultare bizzarro che si fosse fermata in mezzo al marciapiede, quando in verità il ragazzo non ne ostacolava il passaggio, essendo che lui era posto più a lato. Infatti, da un parte vi era la strada, da cui ogni tanto passavano delle macchine, mentre dall'altra una lunga ringhiera, che separava il marciapiede da una piccola collina, la quale discendeva fino alla riva di un fiumiciattolo. Lui era vicino proprio a quella ringhiera, pertanto ad Eve sarebbe bastato tirare dritto se avesse voluto ignorarlo. Ma ovviamente non era sua intenzione.

Si respirava un'aria d'attesa, come se aspettassero che uno dei due dicesse qualcosa, visto che non poteva succedere che altrimenti. Osservandolo quel tanto che bastava, Evelyn pensò che, oltre a quelli di lui, non aveva mai visto degli occhi di una simile sfumatura, di un azzurro così spettrale, quasi che temette di perdersi in quel colore.

"Scusami" azzardò a dire lei a quel punto, cercando di farsi forza. Fu detto quasi imprecettibilmente, eppure il ragazzo riuscì a captarlo. Evelyn faceva di tutto perché non incrociasse il suo sguardo, osservandosi attorno, alla ricerca di qualcosa che le desse spunti per dire una qualsiasi cosa, o che le suggerisse una scusa con cui avrebbe potuto giustificarsi. D'altronde, del perché gli stesse parlando, non ne era a conoscenza nemmeno lei. Forse, il suo intento era solo quello di valutare se lui era davvero il tipo di persona che si era immaginata che fosse. Ma, in realtà, c'era un'altra ragione per cui provava un tale interesse; era un motivo cui lei stessa cercava di non dare peso e di cui, in fondo, si vergognava.

Aveva paura.
Quante volte aveva tentato di rivolgere la parola a qualcuno, quante volte aveva sperato di riuscire ad esprimere quello che realmente provava, quante volte aveva desiderato essere forte abbastanza da riuscire a mantenere un contatto visivo che durasse più di un istante. Eppure, nonostante avesse fatto così tanti tentativi, nulla sembrava cambiare. Non perché fosse timida o poco socievole, bensì perché era insicura di sé stessa, timorosa di essere giudicata, spaventata dalle conseguenze che ogni suo gesto poteva scaturire, terrorizzata dalle reazioni altrui. Temeva di risultare strana, e pensava che se lo fosse stata davvero, non avrebbe saputo come comportarsi in maniera normale, perché le era spontaneo balbettare, o spostare gli occhi da una parte all'altra perché non incontrassero quelli del suo interlocutore.
Ma quando scoprì che esistevano persone come quel ragazzo, così affettuose e allo stesso tempo confortanti, le venne la voglia, per la prima volta, di voler essere lei la prima a prendere parola.
Quindi sì, lo faceva per puro egoismo. Lo faceva perché era stufa di essere così ridicola e voleva appoggiarsi a una persona che rispondeva alle sue esigenze.

Ormai così aveva deciso.
Ma ovviamente nessuno può davvero avere voce in capitolo, né tanto meno decidere per sé ciò che sembra più giusto, visto che la reale decisione non spetta che al destino. E se esso fosse stato avverso e poco caritatevole nei confronti della ragazza, il suo peccato, il fatto che stesse agendo da egoista, le si sarebbe inevitabilmente ritorto contro.

Fu allora che lui, vedendola così impanicata, le chiese: "Tutto bene?". Dal tono sembrava davvero preoccupato, soprattutto perché era estremamente pallida in viso. Si ricordava di lei, a dirla tutta: era impossibile scordarsi i capelli rossi della ragazza, né le sue chiare lentiggini meritavano di essere dimenticate. E altrettanto indimenticabile era il presentimento che lei portasse costantemente un fardello che però non aveva mai provato ad abbandonare, il cui peso stava avendo ripercussioni su di lei anche il quel momento.

Non appena il ragazzo le pose quella domanda, Eve si sentì ancora più sciocca del solito, pertanto si impose di ragionare a sangue freddo e di calmarsi. Fece un gran sospiro, silenzioso nel suo genere, e cercò di rilassare le spalle. Dopodiché, alzò il capo e si costrinse a guardarlo in quegli occhi così gelidi ma allo stesso tempo così rassicuranti.

L'unica cosa che fece, fu alzare una mano in segno di saluto, con un piccolo, minuscolo accenno di sorriso.

Gli fu immensamente grata. Si aspettava un qualche tipo di reazione stranita o confusa, ma lui aveva già intuito abbastanza di lei da non fare l'errore di ferirla, in nessun modo possibile.

Fece un passo verso la ragazza e le tese una mano. Poi, con un sorriso altrettanto imbarazzato, le disse: "Sei la ragazza dell'altro giorno, giusto? Scusa se quella volta non mi sono presentato e, anzi, sono felice di poterlo fare adesso. Puoi chiamarmi anche Kenny".

E, mentre diceva questo, Kenny brillava.

Furono queste le circostanze in cui la loro amicizia ebbe inizio. Ma, come già detto, forse il futuro non aveva programmato per entrambi la felice e normale storia di cui io sono la narratrice.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 03, 2021 ⏰

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