Belfagor poteva andare orgoglioso dei miei progressi. Mi sembrava di sentirlo mormorare nella testa le solite parole d'ordine.
«Tu sarai sempre diverso dagli altri e nessuno ti vorrà mai bene davvero.»
Massimo Gramellini
Le nuvole mi hanno sempre affascinato. Allungo una mano nel tentativo di toccarne una. Il venticello primaverile mi fa rizzare i peli delle braccia.
Da piccola le immaginavo come le disegnavo: un ammatasso ondeggiante. Pensavo a come sarebbe stato salirci sopra. Mi sarei stesa lì e avrei guardato giù, mentre il mondo si faceva piccolo e insignificante. Poi avrei guardato in alto e sarei stata felice. Libera.
Le nuvole bianche mi avrebbero salvata.
Alle elementari mi sentivo sempre fuori posto, nulla di diverso da oggi, ma in quel periodo mi pesava molto di più.
Mi resi conto di andare controcorrente nel momento in cui un bambino si avvicinò minaccioso e disse: «Questo non è il tuo posto.»
Mi indicò un gruppo di bambine che si pettinava e si faceva le trecce a vicenda. Erano sedute sul prato all'ombra di un pino una dietro all'altra e chiacchieravano ridendo fra loro.
Una smorfia si compose sul mio viso.
Non comprendevo, allora, il motivo per il quale non mi volessero con loro a giocare a calcio. Pensavo fosse solo per come apparivo, diversa.
Invece, in quel momento capii più di quanto volessi.
I giochi per femmine, i giochi per maschi.
I vestiti per femmine, i vestiti per maschi.
Le case delle bambole ricevute per Natale, quando chiedevo in realtà la pista delle Hot Wheels.
Le gonne infilate a forza quando in realtà volevo dei pantaloncini.
I capelli rigorosamente da tenere lunghi quando in realtà avrei solo voluto strapparli.
Qualche giorno dopo, mentre correvo con la palla, mi scontrai con un bambino. Lui ne uscì illeso. Io mi ruppi una mano.
Sdraiata supina, guardai il cielo.
Non c'erano nuvole su cui fuggire.
Non dissi nulla. La maestra venne a chiedermi come stavo e io sorrisi per non dare spiegazioni.
Passai il resto delle lezioni nel dolore.
Se fossi andata a farmi le trecce, non mi sarebbe successo.
Ora di sera, la mano si era gonfiata e sentivo un dolore lancinante. A tavola, mia madre mi chiese perché non mangiassi. Non potevo dirle che la mano mi doleva.
Nel trattenere il dolore, furono i miei occhi a rivelare la verità. Mi scesero le lacrime guardandola, mentre la mia bocca si incurvava, traditrice, in una smorfia bambinesca.
Poi la vide. Non cercò di capire cosa avessi dentro. Mi sgridò per tutto il tragitto verso l'ospedale. Non importava del dolore interno, della crepa che mi stava lacerando il petto.
Importava la mano.
Guardai dal finestrino, le nuvole erano arrabbiate con il mondo e piangevano sulla terra.
In quel preciso istante nacque il mio Belfagor.
Belfagor aveva una risposta a tutto. «Non ti meritano, tu sei migliore. Ma devi stare qua, da sola.»
E da sola stetti. I compagni sparlavano alle mie spalle. Belfagor continuava a sussurrare al mio orecchio: «Soli si sta meglio. Nessuno ti farà del male.»
Dopo mesi, si avvicinò un compagno. Ero seduta su un muretto a strappare le foglie dell'autunno in piccoli pezzi.
«Perché sei sola?»
Non risposi.
«Se stavi con le femmine non ti sarebbe successo.»
«Mi va bene così.»
«La verità è che nessuno ti vuole.»
Riprese il pallone e tornò a giocare con gli amici.
Nessuno mi voleva.
Le lacrime minacciarono di uscire.
Alzai gli occhi e le nuvole grigie erano indecise se piangere o meno. Ricacciai le lacrime.
Belfagor si nutrì, non tanto dei miei fallimenti, quanto dei miei mancati tentativi. Mi tenne al sicuro. Mi permise di vivere infanzia e adolescenza senza provare dolore. Mi permise di non giocare più a calcio e di non farmi mai le trecce.
Stavo bene, ma senza vivere.
Belfagor mi tolse anche amore, gioia, felicità, mettendomi in una bolla di autocommiserazione che nessuno poteva scalfire.
Belfagor era la mia nuvola che mi teneva sollevata da terra, estraniata dal mondo intero mentre lo osservavo, dall'alto, andare avanti. Il mondo proseguiva e io rimanevo ferma a guardare.
Anche quando il mio primo amore mi disse: «Ti amo, Giada.»
Rispose Belfagor al mio posto: «Anch'io, ma ormai è troppo tardi.»
Non era vero, non era tardi.
Mi pentii. Scrissi a quel primo amore, fu una bella lettera senza mai risposta.
Stare con Belfagor era la via più facile, allora.
Oggi non è facile.
Oggi è difficile.
Quando un mostro dell'anima ti entra dentro, lascia tracce di sé indelebili come catrame nei polmoni di un fumatore.
E come ogni fumatore cerca di stare lontano dalla sigaretta, io cerco di stare lontana dal mio mostro dell'anima.
Oggi, le trecce le faccio tutte le sere prima di andare a dormire e quando alzo gli occhi al cielo, le nuvole le vedo solo bianche.
STAI LEGGENDO
Melodie dell'anima
General FictionRaccolta di One Shot ispirate dalla musica. In bio trovate il link per la playlist Spotify. Copertina e foto di @sunadir.