CAPITOLO 1

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Il cartellone è uno di quelli che il caldo scioglie, facendo colare i nomi degli attori. Nino non sa leggere ma il bigliettaio gli ha detto che c'è scritto: IL TEATRO LUNA PRESENTA: L'ARIA DEL CONTINENTE, COMMEDIA BRILLANTE IN TRE ATTI. Il teatro si chiama Luna senza un motivo, ha detto il bigliettaio. Anzi, ha aggiunto che per i nomi non ci sono mai dei motivi. Nino gli ha rispolverato il naso a ridosso della biglietteria sollevandosi sulle punte. Arriva fin lì, anche se quando compirà otto anni riuscirà a guardarlo in faccia, il bigliettaio. A fargli capire che per i nomi ci sono sempre dei motivi. Per il momento, però, ha altro da fare. E si caccia la mano sulla patta, fruga tra le mutande di lana. Ne cava fuori il resto di un quotidiano di un mese fa dove il bigliettaio ha detto che c'è scritto: SIRACUSA, 18 MAGGIO 1950.NUOVO INCARICO PER L'ATTRICE DORA GENESIO AL TEATRO LUNA NELLA PARTE DI MILLA MILORD. IL SINDACO RICEVE LA DIVA GIUNTA STAMANI AL PORTO CON IL FIGLIO NINO. Nino si è fatto sottolineare il suo nome dal bigliettaio con il gesso. E lo esibisce ogni volta che è necessario, quando ritiene, cioè, che gli adulti debbano sapere. Che alla sua età è già finito sul giornale. Una volta spiattellato sotto il naso del suo interlocutore il nome NINO a caratteri di stampa e annuito vigorosamente piantandosi il palmo nel petto, ripiega l'articolo con cura, lo nasconde tra le gambe, finge di non ricordare che il suoni di quella parola, per lui, non esiste. Anche se non può sentire, ci sono mille modi per far capire al mondo che lui è Nino e che per i nomi c'è sempre un motivo.

La mamma glielo ha sillabato bene stamattina:"Nino metti le scarpe vecchie. No, non quelle nuove, Nino, che le assi del palco del Luna scrucchiolano come il ponte di una nave". Ha sempre questo modo veloce di liquidare questioni la mamma, di trascurare particolari che per Nino, invece, fanno la differenza. Le assi del palco, ad esempio. È vero che rantolano a ogni passeggeri. E che le scarpe nuove vi tonfano su come bombe. Ma è anche vero che quel tonfo gli si propaga nel sangue, lenzio, a lui sembra di sentire. Non è proprio un rumore, pensa Nino. E neanche una voce, per quel che capisce delle voci. È piuttosto una vibrazione che gli crepita in gola cone un brivido di freddo, o come un ricordo. Ne è sicuro. Il palco del Luna è per lui come quelle orecchi che non raccolgono suoni e che per di più gli sporgono dal viso simili a due mestoli di minestra. Per questo obbedirà alla mamma, ma avvolte nel giornale terrà le scarpe nuove, aspetterà il momento in cui il direttore dirà che è ora di fare pausa e la conpagnia si riverserà nei camerini, le attrici a incipiarsi, gli attori a fumarsi una sigaretta. Allora salirà sul palco con le scarpe nuove, Nino, e correrà, e salterà, e ballerà, fintanto che quel brivido non tornerà a raschiare il petto e strappargli un sorriso largo, salivoso, sdentato. O fintanto che il bigliettaio non verrà a cercarlo per dargli due scapaccioni in teatro. Per soffocare quella risata che a lui, invece, bollr nel cuore solo a pensare che il Teatro Luna ci ha le orecchie.

La pensione in cui alloggiano si apre su un cortile si ortiche e panni penzolanti, gabbie di galline, pentole ammaccature con dentro un terra dura in cui donna Sarina, la padrone di casa, si ostina a far crescere il basilico. Nino vi gironzola setacciando la ghiaia infestata da erbacce, scansando con la punta dellla sciarpa ferri arruginiti e chiodi si cavallo. Cerca altro. È sicuro che il quel via vai che donna Sarina gestisce con voce mascolina e fianchi a strapiombo, e tra sughi di polenta, passate di capperi, reti di letto che ora entrano ora escono, a qualcuno vada di tasca il bottone. Se così è, si è detto Nino, lui - che pure non ha orecchie per sentirne lo sgriccio sul selciato - avrà occhi di gatto per vederlo. E si alza all'alba, sguscia dalle lenzuola a rammensi a toppe che donna Sarina cambia ogni venerdì, scivola tra starnazzi di galline che scodellano uova e sogni di galli che cercano l'amore. Non sente il loro chicchirichì stridulo e arrochito, ma sa che cantano perché il sole sfreccia sui rami, l'afa sale da terra, e lui deve fare presto presto, prima che qualche altro bambino trovi il suo bottone. Non è facile alla sua età, quattro palmi di altezza  capelli biondi e orecchie sorde, farsi rispettare dal mugolo di ragazzini che girellano per i vincoli sotto zazzare nere infestate da pidocchi, carnagioni olivastre e udiro buono. Non è facile. E men che mai di questi tempi, sospira Nino, chè la guerra, dice mamma, ha portato via tutti gli uomini, e pure il suo, inglese, a cui deve quei suoi peli in testa color del sole, mentre mamma - originaria di Catania - non fa fatica a mescolarsi tra le comari con le crocchie spillate e nere di pece, pelle a macchie marroni per gravidanze e parlate in dialetto. Ma Nino non ha l'abitudine di soffermarsi sulle sottigliezze e ha sempre preferito non pensarci, scrollarsi di dosso i brutti pensieri con la fretta di un nuovo obiettivo, perché la guerra sarà pure finita, ma le macerie offrono ancora nascondigli e armi dimenticare, reti di paracadute nelle campagne e, se si ha un pizzico di fortuna, resti di pallottole mezze ripiene di povere da sparo che a metterci dentro un cerino scintillano come stelle e spandono fiamme per aria. Avesse orecchie buone, Nino ne è certo, sentirebbe un boato tanto fire da svegliare mezza Siracusa, appestare il bigliettaio, ricadere infine su donna Sarina che a quell'ora d'alba se ne sta seduta sulla tazza del cortilea dare i suoi bisogni senza sapere che uno  schianto la inibirà di colpo. Senza immaginare che tra un attimo dovrà uscirsene colle mutande abbasate, il culo al vento e la faccia paonazza di scanto.

I rimedi, poi, si trovano sempre, pensa Nino. Anzi, lui è un professionista del rimedio. E si cala sulla testa una coppola che copre capelli e orecchie, si spalma manciate di fango sulle gote, sfalda le sopracciglia bionde, rarefatte, col nero di un carbone. Ecco. Ora può confondersi tra le bande moccolose e arrangiate che si rincorrono tra i vicoli lanciando sassi alle lucertole e fiondando sputi. Nino ha imparato a tenere un grosso in bocca, appiccicoso e denso, che a soffiarlo lontano sfreccia nell'aria un proiettile, lamina con la velocità di un fulmine e sopravanza di almeno cento passi quello degli altri. Non può sentirlo ma il sibilo del suo sputo lo avverte che conciato così, con le orecchie a mestolo che non si vedono e la zazzera color miele camuffata, è uno di loro uno che l'udito ce l'ha, e se non ce l'ha, può sempre inventarselo ridendo se li vede ridere. Sbaitando se li vede sbraitare. E sputando, se sputano. L'imitazione lo ha sempre salvato. Pensa anzi che sia il suo senso mancante, quello che la sorte gli ha messo in mano come matterello si donna Sarina, buono per tutte le occasioni, per sbattere panni e assestare scoppole, per rincassare con un fucile all'arrivo di una gallina fuggita dall'aria e infilatasi malamente nell'uscio. Gli altri questi vogliono. Che somigli loro. E allora Nino allarga la bocca piena di fessure, ride e sputa, sputa e ride, nasconde quello che non ha - capelli neri, orecchie - mostra quel che ha: fantasia e spocchio, perché a lui, a Nino Smith, è nato per zigzare tra l'una e l'altra con equilibrismi da acrobata, uno di quegli uomini volanti che per una volta ha visto al circo e che lo hanni fatto ben sperare. Perché se loro potevano volare senza ali, Nino Smith avrebbe udiro senza orecchie.

(da pagina 10 a pagina 13)

Effatà di Simona Lo IaconoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora