Mi svegliai, ma ebbi un risveglio triste, come tutti gli altri, del resto. Quando dormivo dimenticavo i miei problemi, le mie delusioni, i miei dolori. Il sonno era un luogo astratto dove potevo essere chi desideravo. Adesso toccava tornare a far finta che amavo quel mondo, quella società. Adesso toccava tornare ad indossare una delle mie tante maschere. Adesso toccava indossare quella del ragazzo felice, studioso, che ama conoscere, che ama la vita. Così andai a scuola, dove recitai per bene la mia parte. Ma, quando tutto finì, quando tornai a casa, tornai in me. Per alleviare i miei dolori studiavo o leggevo: studiare impegnava la mia mente a non pensare ad altro, leggere mi faceva rivivere vite di altre persone che, sebbene avevano anche loro vissuto sofferenze, avevano però vissuto momenti di gioia, avevano provato la felicità, avevano, soprattutto, la forza di andare avanti. D'improvviso sentii il telefono squillare: erano i miei "amici". Li chiamavo così perché non sapevo com'altro definirli: un amico è qualcuno che capisce il tuo animo, qualcuno che ama ciò che tu ami fare, qualcuno che i problemi fa in modo che diventino pure i suoi, così da poter impegnarsi a risolverli al tuo fianco. Purtroppo, io, non li sentivo veramente "amici". Uscivo con loro soltanto perché avevamo alcuni interessi in comune, anche se pochi. Perciò decisi di andar con loro e a fare una passeggiata. Ovviamente portai con me un'altra maschera. Con G., A. e V. concordammo un punto d'incontro. Arrivati lì, decidemmo poi di fare una passeggiata. Quante volte avevamo fatto così: sempre le solite girate e sempre i soliti argomenti di cui parlare. Questa volta, però, decidemmo di passare per un lungo ponte. Mentre camminavamo, io guardavo il paesaggio: un gran bel mare e un gran bel sole. Mentre sentivo quelle discussioni di cui m'importava poco, improvvisamente tutto cambiò: il sole tramontò, il cielo si tinse di rosso sangue. Dunque mi fermai, mi appoggiai ad una palizzata. Vedevo i miei "amici", preoccupati, che mi dicevano qualcosa, ma io non riuscivo a capirli. Continuavano e continuavano, ma erano discorsi, per me, senza senso. E allora urlai. Urlai per dar sfogo al mio dolore e alle mie sofferenze, urlai perché ne avevo voglia, perché volevo sentirmi libero, perché volevo solamente essere me stesso. Quando dalla mia bocca non provenne più alcun suono, fu come se non fosse successo nulla: il cielo tornò blu come prima, col sole in alto che splendeva maestosamente. Sentii allora:"M., tu cosa ne pensi?". Non risposi.