Sono sola. In solitudine. Nessuno mi circonda più da tanto tempo, ormai. Si sono dimenticati di me, o forse sono stata io a farli dimenticare della mia esistenza. Perché voglio stare da sola. L'unico amico che rasserena le mie giornate è il fresco vento, che trasporta le voci mozzate di gente che muore, bambini che nascono, ragazze che cantano, ragazze che gridano, uccelli che cadono, sirene che attirano a sé le loro prede, prima di afferrarle con i loro artigli e fenderli un morso nelle spalle. Suonano sempre una leggera melodia che alleggerisce i miei pensieri cupi: è dolce, armonica, bellissima. Quando sta per arrivare la parte più entusiasmante, però, il fruscio del vento scompare. Lo fa ogni volta che porgo l'orecchio più vicino alla porta. Si prende gioco di me. E io lo punisco facendolo lavorare il doppio durante le tempeste che causo, sia di pioggia, sia marine, sia di sabbia. È uno dei pochi svaghi che mi resta. Il cielo non mi rimprovera più come prima, per questi giochetti che sfrutto a mio vantaggio. Da giovane, quando avevo le mani lisce e delicate, ricordo che quasi ogni giorno una nuvola di grandine rompeva il mio tetto di legno, e io rimanevo lì sotto, impotente. Ma non da sola. Ora non sembra più farci caso. Non credo che sia così occupato con le nuvole o con i volatili che disturbano il suo sonno. Semplicemente è il suo modo di dirmi: "Hai ragione. Sfogati". Sfogarmi. Io che tendevo sempre a stare in silenzio e soffrire, a guardare gli altri piangere per sciocchezze, mentre io, io rinnegavo di essere quel che ero, e mi strappavo i capelli per lenire il dolore interno. Mi sfogavo solo con una persona. Ma che senso ha adesso? Struggersi su qualcosa che, di certo, è avvenuta per colpa mia. È solo colpa mia. Maledetta presunzione, maledetta indole malvagia. Forse fecero bene gli uomini, le donne, i ragazzini, ad urlarmi contro. Ero una nullità. Lo sono ancora. Non servo a nulla. Farei meglio a farla finita e a cancellare il mio nome dall'altare degli spiriti indelebili. Eppure so, che anche in quel caso, finirei a crucciarmi per il mio essere, per il mio aspetto brusco e tetro, per le mie fattezze malvagie. Non mi sono mai piaciuta. O almeno, da bambina l'ho sempre pensato, proprio come adesso. Davo retta a tutti i passanti per strada, che guardavano l'angolo dell'impiccagione indicandomi. "Strega, muori"; "Guarda che aspetto oscuro"; "Sparisci, mostro". Tornavo a casa piangendo. I miei genitori mi accarezzavano i capelli. Mi sussurravano: "Sei bellissima, non dare ascolto". Mi hanno sempre difeso. Mi accompagnavano in chiesa, senza timore di guardare in faccia il resto dei credenti. Continuavano a cucirmi dei nuovi vestiti per l'estate e per l'inverno. Per loro era come se nulla fosse. Ne hanno pagato le conseguenze. Per colpa mia. Ero lì piangente, con il viso tra le mani, mentre li guardavo. La folla rideva e indicava. Esultava. Non ho avuto il coraggio di rimanere. Non ero forte come loro. Le fiamme erano alte e ardenti. Sento ancora le risate felici di chi guardava, mentre io mettevo le dita sugli occhi. Non ero arrabbiata. Sentivo dentro di me una triste consapevolezza dell'ingiustizia che mi circondava. Valeva per me come per tante ragazze, tante bambine, tante donne e tanti uomini. Ero strana e sapevo di esserlo. A volte me ne vergognavo, cercando di coprirmi il volto con un velo nero e sottile, nascondendomi tra vestiti larghi, di corredo, che mia madre aveva cucito per il mio futuro matrimonio. Stupida io, stupida lei. Altre, invece, mi mostravo per come ero, mi vestivo in modo insolito rispetto alle ragazzine del villaggio. Mi guardavo allo specchio e mi ammiravo. Ero una macchia nera. Capelli ricci e neri, occhi grandi e neri, pelle olivastra. Non ero pallida come il resto dei paesani, che tutto il giorno rimanevano in casa a pregare Dio e la Sacra Vergine, o che lavoravano il legno, distruggendo quegli alberi così rigogliosi, di cui mi piaceva baciare i rami. Anche i miei genitori erano come me. Erano delle figure scure e alte, belle e imponenti. Non ricordo come fosse mio fratello. Io ero così piccola quando andai via, che dimenticai di portarlo via con me. Non avevo più il coraggio di tornare indietro a riprenderlo. Spesso sbircio nella mia vecchia casa per vedere se è ancora lì, se è diventato un uomo, se ha messo su famiglia o se è andato via. E da quando me ne andai, non rividi mai più la sua ombra. Non riuscii più a percepirlo. Era stato per colpa mia. Lo so. Anche lui era fuggito. Ne sono certa. È colpa mia. E'. Sempre. Colpa. Mia. Dove sei? Ti raggiungo. Ho bisogno di te. La notte è bella, è oscura, ma so che non ci sei tu a riscaldarmi. Mi piaceva così tanto la notte, ti ricordi? Ti ho trovato di notte, che dormivi su un albero slanciato e folto. Con i capelli rossi arruffati e i fiori sulle gambe. Eri più strana di me. Pensavo che nessuno potesse esserlo. Eppure c'è sempre una prima volta. Eri silenziosa e schiva, non ti facevi mai vedere. Pensavo di essere io quella solitaria. Mi facevi paura. Non eri umana e lo sapevo. Ma anche io non lo ero, o almeno, lo sentivo. Guardavo intensamente gli animali e mi ubbidivano, qualsiasi cosa volessi. I gatti mi seguivano per tutto il percorso. Mi hanno aiutata a costruire quella casetta dirottata che poi hai sistemato. Durante le giornate tempestose, prima che finalmente ti mostrassi, controllavo la pioggia che entrava nelle fessure legnose con le mie mani. Non cadeva mai sulla mia testa. Da bambini non ci si rende conto del proprio potenziale. Questi piccoli lavoretti che riuscivo a creare con la mente erano come uno svago, un gioco fatto per divertirmi, un qualcosa di naturale che usciva dalle mie dita, senza controllo, senza timore. "Io sono normale" mi ripetevo. Volevo essere comune, volevo essere la millesima goccia del fiume. Ma a quale costo dire quelle tre parole? Non lo sono mai stata. Non lo ero alla nascita, non lo sono ora. Non lo sarò mai. Se Dio mi abbia maledetto o il diavolo mi abbia benedetto con questo "dono", non lo so. A volte sono stata male, a causa sua. Ho perso tutto, a causa sua. Non ho una casa, non ho una famiglia, non ho affetto. Ho solo paura. Paura della mia stessa faccia e dei miei stessi polpastrelli. Dovrei scomparire in quella stanza, rinchiudermi, non uscirne più, rimanerci fino a quando sarò solo polvere da essere spazzata via. Però c'è il sole. La dolce luce del giorno. Mi sveglia, mi bacia le guance, mi abbraccia quando sono immersa tra i miei pensieri. Poi va via, e incombe la notte, perché sa che amo, o meglio amavo, la notte. Mi lascia nel buio. Alcuni giorni, non si fa viva. In cielo ci sono solo nuvole. Mi stai punendo? No, non lo faresti mai. Ma non andare via. È sempre colpa mia se anche tu sei un ricordo, adesso. Avevi sempre una risposta tenera da darmi, mi consolavi, mi accarezzavi le ciocche di capelli lunghi e folti. Eri silenziosa, eri pimpante, eri il resto mancante della mia esistenza. Eri una sorella separata alla nascita. Forse è accaduto per davvero. Eravamo troppo legate per non esserlo. Era come se il sangue fosse il medesimo, nonostante tu lo avessi blu e lucente. Sì, l'ho visto il tuo sangue. Ti nascondevi, ma vedevo come curavi quegli animali. Eri una creatura del bosco, non un essere umano. Anche tu fingevi di essere normale, all'inizio. Io fingevo di essere normale, all'inizio. Vedi? Lo siamo sempre state, anime gemelle. Ti sei mostrata per ciò che eri dopo tanto tempo, ed anche io ho fatto lo stesso. Tu mi hai dimostrato come far crescere un fiore, io come farne morire uno. Tu mi hai rivelato come far svegliare i rami attraverso un piccolo movimento del pollice, io ho formato una tempesta che li ha spezzati. Tu hai portato quella famigliola di cerbiatti in un posto chiamato ade. Non li hai costretti, li hai solo accarezzati. Loro ti hanno seguito in mezzo al nulla più totale, che non riuscivo a percepire. Tu, che tornando da lì piangevi. Io che ti seguivo, con le lacrime. Non mi hai mai detto cosa c'è lì. Hai sempre avuto paura non appena ti chiedevo cosa fosse. "Tu non ci andrai mai, non preoccuparti" mi dicevi. Invece tu, sporca fata, ci sei andata vero? Ed è stato a causa mia, vero? Mi sento in colpa per averti chiamata sporca. Scusami, sai che non lo intendo veramente. Ma mi fa rabbia. Sei stata l'unica creatura mistica che abbia mai incontrato. Da piccola, mi hanno sempre raccontato che un essere del genere è pura malvagità. È per questo che mi odiavo così tanto. Perché sapevo di esserlo. Sì, ero malvagia, cattiva, spregevole, come quelle streghe descritte nelle illustrazioni per bambini, dal corpo raggrinzito, il viso terribile e gli occhi colmi di empietà. "No" mi rispondevi tu. Ti appoggiavi con la testa sulla mia spalla, e mi rassicuravi. Non ci ho mai creduto a fondo in quello che dicevi. Ma adesso. Tutto è cambiato. Mi hai sempre detto che non ero io quella che avrebbe dovuto dare delle spiegazioni, né tantomeno delle scuse. Non ero io ad avere una figura turpe e spaventosa, come in realtà ho sempre visto allo specchio. Non era stato un errore dei miei genitori farmi nascere. Era stato un errore della gente quello di avere tanta cattiveria nelle parole e nei gesti. Quello di alzare il dito prima che si possa proferire parola. Non era colpa tua se erano, e sono ancora, così spaventosamente presi dal loro ego e dalla loro perenne autodifesa. Hanno delle lettere, delle frasi in bocca, che l'uomo è riuscito a fabbricare da solo durante i secoli, senza l'aiuto di un dio o di madre natura, creando così tanto scompiglio, che gli animali, la natura, le stesse entità che hanno creato un meraviglioso paradiso chiamato originariamente Eden, hanno paura di mettere piede nei territori murati e recintati degli umani. Da lì proviene solo morte e male. È prima del momento in cui la vita termina, che se ne rendono conto, dei danni commessi. E la loro vita ultraterrena non sarà altro che buio. Mi hai sempre detto questo ogni volta che avevo dubbi sul mio aspetto, sul senso della mia esistenza, su me stessa. Mi rassicuravi. Dormivamo insieme abbracciate, e stavo bene. Tanti anni sono stata bene con te. Quel bosco era diventata la mia vera casa. Tu eri diventata la mia vera casa, dove potevo rifugiarmi ogni volta che avevo una perplessità o qualche sintomo di malinconia. Anche tu a volte avevi bisogno di me. Venivi tra le mie braccia, piangevi. Ti sentivi stupida e debole. A me piaceva poterti aiutare, lo sai. Non mi ero di certo mai sentita in debito con te per tutto ciò che facevi, per i tuoi soliti aiuti, per le tue gentilezze non richieste. Però era così bello poterti rendere felice. Rendeva me contenta. Ero contenta di vivere, di averti, di poterti affiancare nelle tue faccende, ti poterti chiedere un abbraccio quando volessi, di poter ridere senza pensarci troppo. Tu non mi hai mai giudicato per quello che ero. Mi hai amato per quello che ero, e che in parte sono ancora oggi: una donna dall'aspetto tetro e gli zigomi alti, che ti piaceva tanto chiamare "strega dai mille colori", nonostante fossi completamente scura, sia dentro che fuori. Io ti ho amata per quello che eri, nonostante il tuo silenzio. Non so perché tu sia andata via. Lo ripeto sempre: la colpa è mia. Ti ho forse fatto morire io? Dimmelo, ti prego. Perdonami. Torna, mi manchi. Eri bella, eri buona, eri mistica. Eri mia amica. Eri la mia anima gemella. Eri la creatura con cui sapevo di poter vivere la mia intera esistenza senza alcun tipo di preoccupazione. Ma sei andata anche tu nell'ade, e non ci sei mai più tornata nella nostra casa in mezzo alla radura. Ti aspettavo davanti al solito melo, dove ci piaceva riposarci dopo una bella nuotata nel lago. Ma non tornasti. Ti chiamavo ma non rispondevi. Piangevo ma non venivi a consolarmi, questa volta. Gridavo, ma non potevi smorzare le mie urla attraverso un tuo fischio dolce o una tua risata spontanea. Ho cercato di entrare nello stesso luogo in cui tu eri sparita poco prima, ma venivo respinta. Ho tentato di distruggere quell'ade, ho provato a tendere la mano per prenderti per capelli, rimproverarti, dirti quanto fossi stata stupida a farmi uno scherzo del genere. Ma non era uno scherzo. Ho sentito gli abitanti del paese avvicinarsi alla nostra radura. Erano con forconi e asce di legno infocate. Stavano venendo per me. Ho creduto che fossi una codarda, che fossi una vergognosa falsa, che per tanti anni mi era stata amica, ma che si era rivelata come tutti gli altri. Eri solo una sporca bugiarda egoista. Non eri diversa dagli umani di cui tanto avevi paura. Avrei avuto voglia di ucciderti io con le mie stesse mani per quello che mi stavi facendo. Mi avevi tradito. Scusami. Perdonami. È solo colpa mia. Mi metto in ginocchio per chiederti venia. Avrei voluto seguirti nell'ade. Perché non me lo hai detto? Perché non mi hai preso con te? Non lo sapevi? Mi cercavano, mi chiamavano, volevano uccidermi. Mi avevano trovata, dopo tanti anni in cui mi ero nascosta dal loro viso, che immaginavo pieno del mio sangue. Avevo paura. Dov'eri? Mi avevi abbandonata. Maledetta me e la mia ingenuità. Non avevo luogo in cui fuggire, la foresta era piccola, anche se folta. Non conoscevo altro posto in cui andare. Avrei voluto morire in quella che chiamai casa. Ci tornai nella mia capanna, con le gambe stanche e gli occhi ancora pieni di lacrime. Almeno ti avrei raggiunto, avrei potuto ammazzarti io una seconda volta. Li aspettai. Entrarono. Eccoli, stavano per prendermi. Diedero fuoco alla capanna. Io ci rimasi dentro senza muovere un dito. Ma non sono morta. No, non sono morta. La mia baracca era per terra, senza più la vita che le avevamo dato insieme. Ho aspettato che le fiamme prendessero anche me, che mi bruciassero pelo dopo pelo, arto dopo arto, dita dopo dita. E invece. Ero ancora lì. Sei stata tu a farlo. Io lo so. Non hai dato la mia anima all'altare degli spiriti indelebili, so che non l'avresti mai fatto. Hai venduto la tua. Hai abbandonato la tua intera vita da fata millenaria solamente per una semplice umana dotata di qualche potere insulso. Hai lasciato la tua radura, i tuoi animali, per me. Solamente per me. Ti eri sacrificata perché sapevi che amavo vivere lì, che amavo giocare con i cerbiatti, che amavo vedere le foglie danzare a tempo. Piansi. Gridai. Gli alberi si afflosciarono e le bestie si accasciarono per terra. Il vento correva impetuoso. Il cielo si era annuvolato. Urlai così forte. Venne giù la neve dall'arco celeste. Era bianca come il vuoto che mi occupava il petto. Ero stata io a provocare una tempesta nevosa. Uccise molti umani del paese, che morirono dal freddo. Io rimasi nella stessa posizione per giorni. Ero in ginocchio. Le braccia stese come morte. Ancora le lacrime riempivano i miei occhi e rigavano le mie guance. Eri andata via per salvarmi e non me ne capacitavo. Urlavo ancora. Urlai per tanto tempo. Non c'eri più. Non potevi più abbracciarmi. Non potevo più prenderti in giro per il tuo modo buffo di camminare. Non potevamo più ballare al chiaro di luna, accompagnate dalla dolce musica dei grilli. C'ero io. Non più noi. Tu eri sparita nel buio della notte. Io invece rimanevo lì, nell'oscurità e nella luce. Non sapevo come potermi liberare dalle catene dell'immortalità. Volevo stare con te, vivere con te, non staccarmi mai dalla tua figura slanciata e stretta. Lo vorrei ancora adesso. Rivedere il tuo viso color verdognolo e i tuoi occhi lucenti. Ma no, non posso. È solo un ricordo. Sei diventata un ricordo, come i miei genitori, mio fratello, la mia felicità. Sarò sempre una donna dai capelli neri, dagli occhi scuri e dalla pelle olivastra. Il tempo cambierà, distruggerà le rocce e le tombe, porterà via con sé le vite di chi mente e di chi soffre, ma non me. Io sarò sempre in questo bosco. Lo pensai non appena capii cosa tu facesti per me. Mi sentii sola. Torna, ti prego. Esci da quel tunnel freddo. Torna da me. Sono sempre qui. Una luce mi ha poi illuminato il viso. La neve si stava sciogliendo e stava tornando il sole. Gli animali tornarono ad essere arzilli e vispi. Gli uccelli ritornarono dai paesi caldi per assaporare quei raggi così strani e cocenti. Gli alberi si rialzarono e diressero i loro rami verso l'alto. Io ero ancora nella stessa posizione, e lo rimasi per tanti giorni ancora. Ma una mattina, mi accorsi che il freddo era sparito solo nel bosco. Il villaggio era ancora infreddolito e morto a causa della neve. Eri tu. Tu eri quei raggi. Sentivo la tua risata dolce mentre ti avvicinavi alla mia ombra. Mi stavi illuminando il viso, le mani, le labbra, la fronte. Baciai ogni singolo raggio. Stavi ancora tentando di proteggermi. Io tentavo ancora di consolarti. Piansi, risi. Ogni giorno aspetto che si alzi il sole, in modo che tu mi possa accarezzare il viso. Ogni giorno mi sveglio cercandoti. Non ci sei. Non ti sento. Poi percepisco il sole sulla mia pelle. Rido. Quando sparisci, mi rattristo. Quando torni, il mio animo, o quello che ne resta, si innalza. Mi sento come in paradiso. A volte non torni. Non so perché tu lo faccia. Forse, solitaria come eri, hai ancora bisogno del tuo spazio. Lo capisco, ma lo compiango. Le nuvole rimangono lì per ore ed ore, e mi sembra un'eternità. Mi chiudo in me stessa, finché non torni da me. La mattina è per me la cosa più bella che possa arrivare dal tempo reo. Ho sempre amato la notte, e tu lo sai. Ora non faccio altro che amare il giorno. La morte per me non arriverà mai, e di questo ne sono certa. Non mi intristisce questo pensiero. Aspetterò tutte le giornate soleggiate di questo secolo, del prossimo, del successivo, per riabbracciare quei raggi, per accarezzarli, per tenerli con me. Ti sento. Ti percepisco. Non sono felice come lo ero prima. Ma non sono malvagia. Non sono cattiva. Sei tu a sussurrare queste parole. E io ci credo. Oh dolce luce del giorno, che accompagna le mie tenebre.
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Dolce luce del giorno
Fantasyquesta è una one-shot scritta per i 18 anni della mia migliore amica. ho cercato di entrare il più possibile nei suoi pensieri. spero che possa piacere anche a voi.