24 Ottobre 1889, Londra:
“Cosa hai appena detto?”
“Niente.”
“Charles non sono sordo ci sento benissimo”
Eravamo fermi, uno davanti all’altro. Spogliati di qualsiasi insicurezza, con le mani unite e gli occhi pieni d’amore. Di tutti quei ricordi che passavano celeri per la mia mente indubbiamente quella frase sarebbe rimasta incisa per sempre. Eppure Charles non era disposto ad ammetterlo, mi trattava da idiota come era suo solito fare e cercava di confortarmi che codeste concezioni fossero unicamente all’interno della mia testa.
“Perché devi essere così ostile!” lo disse senza troppa noncuranza
“Hai detto di amarmi Charles.”
“Non l’ho mai detto, perché devi sempre essere così esagerato?”
“Io esagerato? Vuoi che ti ripeta quello che hai detto neanche cinque secondi fa?”
“Non serve.”
“Ovvio che no, sarebbe come ammettere di aver sbagliato e che non sia mai che Charles Lemaire ammetti tali vergogne.”
“Non ha senso tutto ciò” il suo disaccordo era mastodontico.
“Allora forza Charles mi dica con un bel sillogismo COSA dovrebbe avere un senso.”
Non rispose. Forse perché non sapeva cosa dire, forse perché per lui ormai avevo già oltrepassato il limite, si passò una mano trai capelli per portarli all’indietro e poi con sguardo serio mi disse… “niente ha senso.”
“Come pensavo.”
Ero ormai sul punto di scoppiare. In bilico tra la scelta di buttarsi per morire o per prendere il volo.
“Perdona chi sei, smettila di provarci e non cercare di nasconderti, non con me. perché io so, che anche se non lo vuoi ammettere continui ad avere paura. Le tue parole sono certo siano buttate al vento.”
Se avessi saputo che per estrapolare la verità dalla sua bocca sarebbe bastato solo essere sinceri avrei usato quel approccio fin da subito.
“Odio chi mente, Joseph…” la sua voce era un brusio appena percepibile.
“Lo so”
“E io non potrei mai nascondermi da te.”
“So pure questo”
Ed eccola di nuovo lì, quella sensazione che mi suscitava ogni sua singola parola, perché ogni volta che lui prendeva fiato per parlare io sentivo di star per morire dentro.
“Ho solo paura di sembrarti affrettato…”
Lo guardai stupido.
“Charles, guardami.”
“non ci riesco”
Ci riprovai, volevo che mi guardasse.
“Charles, ti prego guardami” alzò dunque lo sguardo, sostenni però solo perché quella frase era uscita più come una supplica che altro.
“Tu credi sul serio che quella notte se fossi restato sobrio non avremmo fatto niente?”
Non mi rispose subito, sembrò anzi volersi passare i pensieri da una mano all’altra.
“La risposta è “si, lo avremmo fatto comunque” era da settimane che lo desideravo, l’alcol mi ha solo dato una spinta, ma avrei agito di mia spontanea volontà anche senza.”
Non furono necessarie le parole, mi sorrise e bastò quello, mi era sempre bastato solo quello per tanto tempo, troppo tempo.
27 ottobre 1889 Londra:
Passavo le mie giornate tra la contemplazione delle meraviglie del mondo e la scrittura, univo due bellezze completamente distinte per crearne una unica, capace di dare un senso alla mia vita, per alcuni versi estremamente banale e per altri assai emozionante.
Non si poteva di certa sapere quanto tempo dedicassi a tale passione, ero ciò che desideravo fare e non mi ero mai sognato di dare peso a quei numeri segnati dalle lancette, che non servivano ad altro se non che a distinguere le diverse sfacciature della giornata. Ed era dunque così semplice perdersi nei propri pensieri addormentandosi col sole e svegliandosi con il bagliore della luna.
Quella note la luce imprigionata dalla mia amata entrava a spicchi dalla finestra, non si era mai comportata come suo fratello, che con prepotenza e audacia voleva a tutti i costi illuminare in maniera quasi eccessiva il cielo, era anzi più pacata e per i fatti suoi senza chiedere troppo in cambio per ciò che faceva.
Mi diressi verso la stessa finestra dalla quale la luna tanto voleva salutarmi, e l’aprì. In un istante fugace il lui era lì a guardarmi, Charles Lemaire con il suo viso da angelo in costudito in un corpo e un’anima che rappresentava tutt’altro.
Nessuna tracia avrebbe fatto intendere in alcun modo che avesse dimenticato quello successo pochi giorni prima. Avevamo svelato i nostri segreti, l’amore era reciproco, questo già si sapeva, bisognava capire se pure il coraggio lo era.
“Buonasera. Spero tu stia bene” Gli dissi.
Sorrisi, ma lui non ricambiò.
“Sì va tutto bene…” mi guardò di sfuggita, sembrava non volermi guardare negli occhi.
Lo guardai preoccupato, chiusi poi la finestra e scesi le scale rapidamente, cinque minuti dopo ero davanti alla sua porta aspettando che mi aprisse, mi chiedevo se la colpa di improvvisa tristezza fosse causa mia, o se in parte centrassi.
Bussai, il mio pugno era teso almeno quanto lo ero io, colpii la porta diverse volte prima Charles mi venisse ad aprire, gli occhi stanchi e rossi ma non per via del sonno e la camicia da notte completamente fradicia di sudore.
“Joseph, cosa ci fai qui?”
“Avevo intuito non stessi sul serio bene, e ora che ti guardo posso confermare le mie teorie”
“Sto bene, non ho bisogno che tu stia qui.”
“Oh certo che no, è per questo che tremi e…” gli misi una mano sulla fronte “cavolo ma quanto scotti?”
“Ti prego Joseph, ritorna a casa. Riposa, non ho bisogno del tuo aiuto, sto sul serio bene” tremava, non poteva sul serio pensare che io gli stessi credendo.
“Da quanto tempo è che stai così?”
“Ti scongiuro ritorna a casa”
“Ti prego dimmelo”
“Ieri mattina tardi” fece un passo indietro, pensai principalmente per proteggermi da sé stesso ma non capiva che così facendo stava solo contribuendo a spezzarmi.
Mi avvicinai interrompendo così quella distanza, non mi importava niente, lo abbraccia e sentì la sua pelle calda sotto il mio tocco gelato.
STAI LEGGENDO
deep end
Short Story"Lui era consapevole di ogni medesima cosa e condivideva i miei pensieri, se io mi inginocchiavo per pregare lui lo faceva assieme a me, accompagnandomi in questa ipocrisia senza fine, la mia anima era affine alla sua, danzavano assieme ma non si to...