Am I Supposed To Be Happy?

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Tw// omofobia, suicidio





"Lexa, ti prego apri!" sento urlare, ma non mi muovo di un millimetro. Sono immobile, seduta sul pavimento della mia stanza, circondata da vecchie fotografie. Ne prendo una in mano e la guardo, come se i miei occhi potessero riportare in vita quanto raffigurato. A volte mi chiedo essere felice è un diritto che spetta anche a me. La risposta che mi do non è delle migliori.

"Lexa, ti prego! Ti scongiuro, fammi entrare!". Chiudo gli occhi a quelle parole. Fammi entrare. No Clarke, non posso. Non ce la faccio. Aprirsi agli altri è un lusso che io non posso più concedermi. Non oggi. Non questo giorno.

"Lexa, ti prego." la sento supplicare, la voce sempre più debole, rassegnata. Dio, cosa sto facendo? Cosa le sto facendo? Con uno sforzo monumentale mi allungo e afferro le chiavi della camera, per poi lanciarle sotto la porta. Sento Clarke afferrarle e armeggiare con la serratura. Non la vedo entrare, sento solo le sue braccia circondarmi da dietro e stringermi al suo petto. Mi bacia con tenerezza il capo e comincia a cullarmi, senza dire nulla. Sa che sarebbe perfettamente inutile. A volte il dolore è così grande che non esistono discorsi in grado di lenirlo. In fin dei conti, tramite le parole l'essere umano cerca di razionalizzare la realtà, di dare un senso a ciò che lo circonda. Eppure, qual è il senso che si cela dietro alla morte di una persona cara che non ha trovato altro appiglio se non il vuoto sprofondare nel nulla? Qual è il senso che si nasconde dietro alla decisione della ragazza che ami di porre fine alla sua esistenza, schiaffandoti in faccia la tua piccolezza, la tua inadeguatezza, la tua nullità, il tuo non essere abbastanza? Qual è il senso del male che alberga nel cuore di un uomo così radicalmente ancorato alla sua idea di bene, non coincidente con la realtà, dall'arrivare a spezzare definitivamente le speranze di una ragazza di soli ventidue anni, facendola sentire un errore, un peccato da estirpare e lavare con un estremo sacrificio? No, la verità è che non esiste alcun senso. Non esiste e non può esistere. E va benissimo così. Se mi dicessero che un senso c'è beh, probabilmente impazzirei. Non credo che il dolore serva realmente a qualcosa. Penso che sì, si possa imparare da esso, ma il dolore in quanto dolore non porta con sé alcun significato mistico o insegnamento di vita.

"Sono qui." mormora improvvisamente Clarke, risvegliandomi dai miei pensieri. Mi volto lentamente, fino a quando le mie iridi verdi non si specchiano nei suoi grandi occhi azzurri. Apro la bocca per parlare, ma ne esce solo un suono strozzato. Mi mordo forte il labbro. Non voglio piangere. Non voglio crollare. Non voglio essere debole. Non posso.

"Lasciami entrare." mi sussurra lei e a nulla valgono i miei patetici tentativi di resistere, la verità è che io sono già debole. Di fronte a Clarke non ho difese, è riuscita a scardinarle tutte.

"Pensi che io meriti di essere felice?" chiedo senza alcun preavviso. Sospira, senza darmi una risposta. Sa di non potermela offrire lei. Devo cercarla io, trovarla io, afferrarla io. Ne è consapevole anche lei. È l'unico modo perché sia una risposta vera, non un mero insieme di parole.

"Oggi sono tre anni. Pensavo che il tempo potesse anestetizzare il dolore, ma mi sbagliavo. Fa sempre più male, Clarke. Mi sento come se dovessi esserci stata io al suo posto. Se solo non l'avessi lasciata da sola quel giorno, lei non...". Non sono in grado di completare la frase. Scoppio a piangere, finalmente. È un pianto carico di disperazione, di rimpianti, di rimorsi, di sensi di colpa. Clarke mi culla dolcemente, sussurrandomi di tanto in tanto parole cariche di conforto che, però, non sono in grado di comprendere. Lo sa anche lei, eppure non si ferma. E io stessa voglio che non lo faccia. Ho bisogno di sentire la sua voce. Ho bisogno di percepire qualcosa, un'alternativa a tutto questo dolore, a tutta questa assenza di senso. Clarke non smette di parlarmi e, allo stesso tempo, aspetta, con estrema pazienza. Aspetta che io sia pronta a lasciarla entrare, per l'ennesima volta. Non so per quanto tempo rimaniamo così, avvinghiate l'una all'altra, io persa tra mille singhiozzi e Clarke che non demorde, che continua a cercare di riportarmi da lei tramite il suono della sua voce. Sento la sua mano accarezzarmi i capelli e la sua bocca posarsi sulla mia tempia, mentre il mio corpo scosso da spasmi è ormai completamente prosciugato a causa delle lacrime versate. Mi accascio sulle sue gambe, senza più forze.

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