Dinosauri

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Non c'è traccia di dinosauri nell'opera dei grandi filosofi.
Non esistono. La storia della filosofia si è intrufolata nei più oscuri nascondigli dell'anima umana, ne ha raccontato i sogni, i desideri, le paure, eppure gli sembra che non riesca ad andare un po' più indietro, che non riesca a superare l'esistenza storica dell'uomo. Non riesce a considerare che l'uomo non sia l'assoluto protagonista di questa terra.
È questo che Manuel pensa, sveglio, gli occhi sbarrati nel buio.
Non ci sono i dinosauri nella filosofia.
Il suo dinosauro giocattolo è accanto alla sua testa e sembra triste dopo tanti anni nascosto in un armadio, sembra triste lì poggiato sul suo cuscino.


"Mamma."
Manuel fissa i suoi occhi stanchi su di lei, occhi grandi di malinconia.
Anita è seduta sul divano tra i fogli sparsi delle sue traduzioni infinite. Sono fogli su cui scorrono parole straniere che le hanno sempre permesso di abbracciare tutto il mondo, di trovare le parole giuste anche quando non era in grado di farlo nella sua lingua madre. Qual è la lingua di una ragazza madre, in fondo? Una lingua che esprime solitudine.
Anita alza lo sguardo sul figlio. È sguardo di madre, sguardo di conforto e di tenerezza.
"Hai dormito?"
Manuel alza le spalle. Si siede accanto a lei, i suoi occhi vagano per la stanza della loro piccola casa, del loro piccolo nido di angosce condivise. È il nido di una mamma e di un figlio sempre insieme, spauriti e soli.
"Perché non mi avevi detto che c'ero anche io in ospedale con il fratello di Simone?"
Anita gli accarezza i capelli. "Te l'ho detto, non sapevo che avesse un fratello, non sapevo che fosse morto."
"Sì, ma perché non mi hai detto che c'ero anche io?"
Anita passa le sue dita sul punto in cui sa che c'è una cicatrice, sepolta sotto i ricci. È una cicatrice che le fa male, che sente addosso come se fosse sua. È più dolorosa di tutte quelle che si è fatta e si è dovuta ricucire da sola, perché le cicatrici dei figli fanno sempre più male. Le cicatrici dei figli sono sempre impossibili da sopportare.
"Eri così piccolo. Ti sei arrampicato su un muretto alto e sei cascato a terra, perdevi sangue. Non sai che spavento..."
"Sì, lo so mamma, me l'hai raccontato tante di quelle volte. Me l'hai ricordato continuamente, ogni santa volta che mi vedevi correre, saltare, arrampicarmi sui muretti... sta' attento Manuel, per piacere, non ti spaccare la testa di nuovo..."
Anita sorride, ma il ricordo di quelle sere in ospedale si annuvola come un velo tra le sue iridi, un piccolo velo fatto di cartapesta stropicciato sotto la pioggia.
Manuel lo sa. Lo sa che c'è molto di più di una testa spaccata e di un brutto ricordo, di un brutto spavento. È un velo su cui è scritta la storia della sua famiglia. Una famiglia piccina, una spiaggia nascosta con due conchiglie rigettate dal mare e abbandonate sulla sabbia. Non c'è un padre, che non ha voluto esserci per loro. Non ci sono dei nonni, che l'hanno accolto freddamente al mondo, tra risentimenti e distanze, litigi e incomprensioni. Non ci sono zii, cugini, non ci sono fratelli. C'è solo una madre con il suo bambino di cartapesta, un bambino di cartapesta arrabbiato con il mondo.
Manuel pensa a Simone. Pensa che anche Simone deve essere stato un bambino arrabbiato, con un padre distante, una madre sola e triste. Anche Simone deve essere stato un bambino di cartapesta, stropicciato dagli sbagli degli adulti.
"Mamma." Manuel insiste, ha bisogno di sua madre. Ha bisogno che lei capisca. "Sono uno stupido."
Anita scuote la testa. "Non sei stupido."
"Sì, sono uno stupido. Ho trattato di merda Simone. L'ho trattato male e non se lo meritava. S'è quasi ammazzato. Io ero lì quella notte, sapevo di suo fratello più di quanto sapesse lui."
"Manuel, avevi quattro anni. Che stai dicendo? Non lo sapevi..."
"Sì. Lo sapevo, da qualche parte, qui, nella mia testa"
"Manuel." Anita aumenta la pressione delle sue dita sui suoi capelli. È una pressione di madre, forte, dolce, antica. "Non lo sapevo neanche io."
"Io sì. Da qualche parte, qui, nella mia testa..." Si tocca la fronte, chiude gli occhi. "Qui dentro. Ho giocato con il loro dinosauro per anni."
Manuel immagina quei due bambini, due gocce identiche che si contendono un dinosauro verde di plastica e che di notte sognano dinosauri che si rincorrono nei prati. "C'è questa cosa che ci lega, questo...questa cosa orrenda. E lui adesso sta in ospedale, e io invece sono qui."
Anita lo stringe a sé, gli bacia i capelli. "Puoi andare da lui" gli dice. Il suono della sua voce è dolce, è un vento che trasporta il foglio di cartapesta fino a toccare le nuvole. "Puoi sempre andare da lui."
Manuel non riapre gli occhi. Li tiene chiusi, forte forte, mentre immagina anche lui dinosauri che si rincorrono nei prati.

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