prejudices.

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𝐖𝐫𝐢𝐭𝐭𝐞𝐧 𝐛𝐲
𝐃𝐚𝐞𝐥𝐞𝐧 𝐂. 𝐈𝐫𝐰𝐢𝐧®⚜

Personaggi principali.

Personaggi principali

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Come raggi di sole.

Anche quella mattina era arrivata in anticipo.
Posò lo zaino a terra e dopo essersi seduta al suo solito posto, l'ultimo banco dell'ultima fila lontana da occhi indiscreti , iniziò a strofinarsi le mani arrossate alla ricerca di calore.
Casa sua distava una quindicina di minuti dalla scuola, ma le temperature gelide di novembre, le graffiavano le guance e le nocche spaccate delle mani.
Le piaceva l'inverno, poteva imbottirsi quanto voleva senza che nessuno le chiedesse niente.
Il cappellino nero nascondeva i suoi lunghi capelli biondi, così chiari alla luce del sole da sembrare fili dorati, o almeno era così che le diceva la madre, ma non tutti erano d'accordo, molti non li trovavano così belli come gli occhi color miele della donna che l'aveva messa al mondo.
Il cappuccio della felpa calato sul capo la proteggeva da quelle occhiate ripiene di giudizi, mentre tentava di nascondere il suo volto pallido, bianco come un cadavere, così le avevano detto.
Il vociare di qualche studente mise a tacere i suoi pensieri; lentamente i corridoi si riempirono di suoi coetanei, anche se tra tutta quella massa di adolescenti lei si sentiva una pecora nera, una di quelle che viene guardata da lontano, con occhi criptici e una risata divertita, una di quelle che Ella tanto odiava.
Non ci volle molto affinché quelle risate si facessero sempre più vicine, le sue compagne erano appena entrate in classe, tutte in tiro e coperte da meno strati di vestiti a differenza sua, loro non avevano problemi a mostrarsi, erano belle, erano perfette.
Quelle risate si fecero più forti, divennero fastidiose, le graffiavano le orecchie e le aumentavano i battiti.
Afferrò lo zaino con mani tremanti, alla ricerca del suo quaderno, ne aveva bisogno per tornare a respirare, ne aveva bisogno per smettere di sentire le loro voci, le loro risate, le loro parole.
Lo prese con impazienza dal fondo della borsa insieme al suo pennarello nero, lo aprì di fretta e appena si scontrò con lo sporco che macchiava le pagine dai suoi precedenti disegni, il suo battito rallentò così come il suo respiro.
Si sentiva così, come quel nero indelebile che macchiava la tela, ma quel nero la salvava ogni giorno, perché solo così smetteva di ascoltare, di sentire quelle voci ripiene di cattiveria, di pregiudizi, perché incapaci di accettare la diversità che la costituiva.
Finalmente le sue orecchie non sentivano più niente, mentre stringeva tra le mani il pennarello nero e osservava oltre la finestra cercando qualcosa che la ispirasse.
Il cielo era nuvoloso, gli alberi le scorrevano davanti oscillando ad ogni colpo d'aria per via del vento di quella mattina, ma i suoi occhi catturarono un ragazzo fuori dall'edificio, nascosto in un vicolo tra due palazzi, con lo zaino in spalla e una bomboletta nella mano sinistra, ma ciò che la colpì fu quello che stava raffigurando: erano tanti occhi, tanti sguardi, come le tante persone che osservavano lei ogni qualvolta mettesse piede in un luogo.
Osservò attenta i movimenti del suo polso, che sicuro proseguiva senza sgarrare neanche mezza volta.
Sentì la professoressa fare il suo ingresso e dovette distogliere lo sguardo, attese paziente che facesse l'appello prima di riportare gli occhi in quel punto, peccato che dell'artista, non era rimasta più nessuna traccia.
Da quel giorno ci pensò spesso, tanto che per curiosità andò persino ad ammirare quel capolavoro da vicino, scoprendo due iniziali di un nome che probabilmente non avrebbe mai saputo.
Passarono settimane, mesi forse, ed Ella alla fine si dimenticò di quel ragazzo, era troppo impegnata a tentare di sopravvivere quando un giorno improvvisamente, il suo quaderno e il pennarello nero la abbandonarono; Non zittivano più chi le stava intorno, e non sapeva più come mettere fine a tutto quel trambusto che le incasinava la testa.
Si sentiva un bomba ad orologeria, ma una di quelle difettate, che quando sarebbe scoppiata, non avrebbe fatto del male a nessuno se non a se stessa.
Era stanca di vivere ogni giorno quelle stesse movenze, era stanca di quelle risate, di quelle parole, di quei sgambetti, di quelle occhiate.
Così scappò via, lasciò cadere a terra quel dannato tema che avrebbe dovuto leggere ad alta voce, mentre quella frase si ripeteva a loop nella sua testa: "ma non lo sa prof? i cadaveri non parlano".
Le lacrime non uscivano, ma la rabbia, l'impotenza era così tanta che a stento le permetteva di correre via sotto i richiami della prof che non aveva mai capito niente, di chi fosse il cadavere.
Iniziò a salire le scale di fretta, arrivando all'ultimo piano con il fiato corto e le mani che tremavano.
Un tempo la porta che conduceva al tetto dell'edificio era chiusa, ma non ci volle molto affinché qualcuno in un attimo di ribellione o di pazzia la scagionasse solamente per fumarsi una misera sigaretta, con l'adrenalina in circolo e l'ansia di venire scoperti.
Salì di fretta le scale, attenta a non farsi vedere e si ritrovò di nuovo dinanzi a quelle nuvole grigie, cupe come il suo umore anche a distanza di settimane.
Andò incontro a quella cornice in marmo che circondava i contorni del piazzale e si affacciò, guardando quanta altezza la separasse dal piano terra, tanto che le si mozzò il fiato.
Si sedette con attenzione, con i piedi che penzolavano nel vuoto e gli occhi fissi a terra nonostante avesse le vertigini.
Aveva gli occhi annebbiati perché finalmente quelle dannate lacrime avevano deciso di partecipare a quel crollo emotivo che la stava risucchiando in un vortice senza uscita.
"Sono debole", si ripeteva, mentre abbassava il cappuccio dell'ennesima felpa per togliersi il cappello, godendosi il vento che le scombinava quella bellissima chioma dorata che ancora non aveva imparato ad apprezzare.
Avrebbe voluto sentirlo più spesso, il vento che le accarezzava i capelli mentre camminavo a testa alta e non con gli occhi puntati a terra.
Stava pensando di lasciare un messaggio alla madre per salutarla; Aveva faticato tanto per crescerla e non aveva mai smesso di dirle quanto fosse bella ai suoi occhi, mentre le pettinava i capelli che si ostinava a nascondere.
Sapeva che piangeva di notte, quando dinanzi ai suoi piatti saporiti, Ella ne assaggiava solo il contorno, ma per quanto ci provasse, quel corpo gracile non voleva saperne di assumere altro, o probabilmente era la sua mente che non voleva.
«Che fai? Ti butti?» le chiese qualcuno facendola sobbalzare, mentre si faceva prendere dal panico sentendosi scoperta in assenza del suo cappello.
Ella non rispose, voltò il capo verso una porzione di cielo, mentre sentiva lo sconosciuto prendere posto accanto a lei.
L'odore di fumo le arrivò all'olfatto, facendole increspare il naso, attirando gli occhi del ragazzo su di sé.
il ragazzo la osservò con interesse, chiedendosi come mai una ragazza dalla pelle candida come la neve e dalla bellezza tanto delicata, avesse gli occhi così lucidi da arrivare sul tetto della scuola con i piedi calati nel vuoto.
«Non te lo consiglio sai, le finestre non si affacciano su questo lato, prima dell'ora di pranzo nessuno si accorgerà del tuo corpo lì a terra» parlò il ragazzo, smanioso di attirare i suoi occhi su di sé per scoprire di che colore fossero.
Ella increspò le sopracciglia per la bizzarra osservazione del ragazzo.
Nei film quando vedevano qualcuno sul punto di suicidarsi, cercavano di convincerlo a non farlo mentre quel ragazzo stava facendo tutto altro.
Ella rimase in silenzio, ma sentiva gli occhi di quel tipo addosso da un bel po', così con dita tremanti decise di mettersi il cappello sentendo quella dannata necessità dì coprirsi.
Ma quando lui notò il suo intento fu più veloce, lo afferrò senza che lei potesse fermarlo ed Ella si voltò finalmente, per guardarlo con rabbia.
Le labbra del ragazzo si incresparono in un sorriso, urtando ancor di più lo stato d'animo di Ella, ma lui sorrideva perché aveva finalmente scoperto il colore dei suoi occhi: due gemme in tempesta, grigie come il cielo in preda ad un temporale, peccato che non brillavano, perché lui lo aveva visto, che i suoi occhi erano spenti.
«Ridammelo!» lo aggredì Ella, ma la voce era incrinata, sul punto di piangere, il bisogno di quel capello la stava mangiando viva, sotto gli occhi curiosi di quel ragazzo bizzarro.
Aveva due occhi nocciola e dei capelli ricci con le sembianze di un cespuglio, ma quella tenera fossetta all'angolo della bocca catturò l'attenzione di Ella.
Per un attimo rimase immobile a guardarlo, rendendosi conto che era tanto, forse troppo, che non guardava qualcuno negli occhi.
Lui non la stava giudicando però, non c'era critica nei suoi occhi curiosi, tanto meno malizia, come il resto dei ragazzi.
Le lacrime erano ancora lì, pronte a bagnarle il viso tanto che lui se ne accorse e l'innocente sorriso che aveva sulle labbra scomparse.
«Allora, me lo dici perché vuoi buttarti?» chiese il ragazzo, osservandola attentamente.
Ella abbassò le braccia con cui tentava di riprendersi il cappello e distolse lo sguardo dai suoi occhi in attesa di una risposta.
Passarono minuti interi, prima che lei rispondesse, ma quel ragazzo rimase ad aspettare come se non avesse di meglio da fare.
«Sono stanca» ammise, forse per la prima volta, tanto piano che pensò non l'avesse sentita.
«Quindi che fai? Ti arrendi? Molli tutto così?» le chiese il ragazzo con una punta di fastidio.
Ella abbassò lo sguardo verso il vuoto mentre stringeva con forza i denti; lui non sapeva come si sentiva ogni giorno. Stava già morendo, era in bilico tra la vita e la morte ogni giorno, stava solo cercando di sopravvivere.
«Se ogni persona stanca della vita o di quello che le accade, reagisse così, saremo tutti una banda di vigliacchi» commentò il ragazzo.
Ella si sentì come se le avessero appena dato uno schiaffo in pieno viso, mai nessuno le aveva detto la verità con così poco tatto; quel ragazzo le aveva appena dato della vigliacca.
«Abbiamo tutti delle ombre, ma se ti arrendi così, hai perso in partenza» continuò il ragazzo, con il timore di averla ferita.
Anche se sbagliava i modi, il suo scopo era motivarla, non accettava che a un'età così precoce ci si arrendesse così.
«Adesso puoi anche buttarti, far finta che questa conversazione non sia mai avvenuta, ma segui il mio consiglio, aspetta l'ora di pranzo, almeno non ti lasceranno lì a terra per molto» proseguì con leggerezza, anche se dentro si sarebbe sentito in colpa per sempre nel caso lo avesse fatto.
Si alzò senza dire più nulla, dando le spalle a quella ragazza dai capelli dorati come raggi di sole, sperando dentro di sé che una volta andatosene, tornasse in classe.
Ella lo osservò attenta, mentre andavo incontro alla porta pronto ad andarsene.
Non si ricordava l'ultima volta in cui qualcuno avesse scambiato una parola con lei.
Forse farla finita era davvero da vigliacchi, perché lui nonostante avesse gli occhi tristi tanto quanto lei, insieme a quelle occhiaie accentuate e le nocche spaccate per qualche pugno nel muro, lui sorrideva; si era seduto accanto a lei per motivarla, nonostante avesse le sue ombre, perché le ombre le avevano tutti, le aveva detto così.
«Ehi!» gli gridò dietro, alzandosi di scatto per seguirlo.
Il ragazzo sorpreso si voltò mentre tentava di fumarsi quel che rimaneva della sigaretta.
Si osservarono per un paio di secondi, ed Ella quasi dimenticò perché lo aveva fermato quando una chiazza nera sull'indice della mano sinistra attirò la sua attenzione.
«Com'è che ti chiami?» gli chiese con un sorriso, perché per un attimo si illuse che lui fosse quell'artista di strada che aveva visto dalla finestra, e in quel lasso di tempo, mentre lo osservava in attesa che rispondesse, quelle ombre che aveva sempre intorno, scomparvero.
Il ragazzo sorrise a sua volta, mostrando ad Ella di nuovo quella fossetta all'angolo della bocca che aveva attirato nuovamente la sua attenzione.
«Facciamo che te lo dico la prossima volta, stesso posto, stessa ora. Ci stai?» chiese lui, guardandola in attesa, speranzoso di sentire una risposta affermativa.
Lei non rispose subito, resto lì ad osservarlo mentre si torturava le mani, finché non riuscì finalmente a rispondergli: «ci sto», prima di sorpassarlo per scappare via in preda all'imbarazzo.
«Ehi, non dimentichi qualcosa?» stavolta fu lui a richiamarla, mentre le mostrava il capello che per la prima volta in vita sua aveva completamente dimenticato.
«facciamo che te lo tieni tu» ribatté Ella, dopo aver posato lo sguardo su quel pezzo di stoffa da cui aveva dipeso per troppo tempo, e poi andò via.
Percorse i corridoi con i suoi bellissimi capelli sciolti e la testa alta, perché alcune cose meritavano di essere guardate, non poteva passare tutta la vita a guardarsi le punta delle scarpe.

***

Perché basta un attimo, basta solo un istante affinché il corso degli eventi cambi prospettiva; basta una parola in più, un po' di solidarietà, un po' di accettazione e una mano quando si cade, perché non tutti sono stati fortunati come Ella, non tutti hanno incontrato qualcuno sul tetto, pronto a dire che farla finita non è la soluzione, alcuni si sono buttati, e niente ha attutito la caduta.

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